Recensione di “La figlia dello straniero” di Joyce Carol Oates
Quanti segreti può nascondere un’anima? Quanto dolore tollerare? Da quanto amore, e paura, e orgoglio, e menzogna, e bisogno di confessare la verità può essere attraversata una vita che sia davvero possibile vivere? Un’esistenza che ci sia consentito affrontare senza soccombere? A queste terribili domande si trova costretta a dare una risposta, fin dalla più tenera età, Rebecca Schwart, tenace e tragica protagonista de La figlia dello straniero di Joyce Carol Oates.
Nel coinvolgente, impetuoso romanzo dell’autrice americana è il tema del viaggio (quello interiore della scoperta di sé e della propria accettazione; quello reale, narrato con grande intensità d’accenti come precipitosa fuga, come decisione estrema presa per salvarsi la vita, per non morire come un animale preso in trappola; quello concreto e nello stesso momento metafisico dello scorrere del tempo, che inevitabilmente finisce per metterci di fronte alle conseguenze delle nostre scelte) a scandire gli eventi e a dar loro significato.
Il viaggio, inciso nelle carni dei genitori e dei fratelli più grandi di Rebecca, ebrei scappati dalla Germania nazista per evitare i campi di sterminio e approdati in America, che si conclude proprio al momento della sua nascita e fin da subito ne segna il destino (“Tu sei nata qui, non ti faranno del male”, le ripete a più riprese il padre, becchino in una piccola cittadina di provincia, uomo distrutto dalle persecuzioni subite, roso dal cancro di una rabbia feroce che non può fare a meno di sfogare sui suoi familiari). E immediatamente dopo quella prima odissea, una seconda, estenuante peregrinazione: la scoperta del nuovo Paese, che per Rebecca va di pari passo con la conoscenza del mondo della propria infanzia, un mondo popolato quasi soltanto da miseria, diffidenza, e sopratutto soffocato, ghermito dalla paterna mania di persecuzione che come una febbre, una malattia, un contagio, si estende da lui alla moglie, e ai figli, e infine tocca anche Rebecca, il cui cuore acerbo di bimba viene istruito a indurirsi, a celare ogni palpito (“Nel regno animale i deboli soccombono presto”).
Così la piccola cresce in un’atmosfera quasi irreale di ottusa solitudine, la propria immaginazione come unica compagna di giochi, l’amore della madre implorato senza sosta, e senza risultato. Finché, un terribile giorno, la follia di suo padre Jacob esplode incontrollata, e la sua famiglia (o meglio, quel che ne era rimasto dopo l’abbandono di entrambi i figli grandi) cessa di esistere. E allora è tempo di un ennesimo viaggio per Rebecca, quello freddo e impersonale della burocrazia, dell’affidamento, da cui lei scappa non appena ha l’età giusta per farlo, aggrappata a fantasmi d’amicizia con un paio di coetanee. Ma la quiete di questa sua nuova vita è solo apparente, un fragile argine di normalità destinato a spezzarsi al giungere dell’amore, della passione; è l’incontro con Niles Tignor a far sbandare la giovanissima Rebecca, la sua straripante personalità a soggiogarla, la sua esperienza delle “cose del mondo” e delle donne (l’uomo ha circa il doppio dei suoi anni) a conquistarla. Lei si ne innamora, lui la desidera talmente da arrivare a sposarla (o da organizzare le cose per far sì che a lei sembri così) e dopo circa due anni (e un aborto causato da percosse) ecco nascere il loro figlio. Il loro primo e unico figlio. Un maschio. Ragione di vita per Rebecca, poco più di una curiosità che presto scolorisce in qualcosa di simile a un peso, o peggio a un fastidio, per il padre. Il padre, un uomo così diverso dal suo di padre, eppure in qualche modo così simile nel suo tranciare giudizi sugli uomini e il mondo, nel suo rifiuto cieco, cattivo di accettare confronti, di essere contraddetto, ostacolato, nella violenza cui sente il bisogno di ricorrere per affermare se stesso, per placare il proprio demone interiore, per riuscire a dormire. Sprofondato nel nero pozzo del sonno come fosse un bambino. E il giorno in cui Niles Tignor si accanisce anche sul bambino oltre che su di lei, Rebecca capisce che è necessario rimettersi in viaggio. Scappare, come avevano fatto i suoi genitori dai nazisti, far perdere le proprie tracce, affrontare la vastità dell’America senza fermarsi mai, il bambino sempre al suo fianco.
Il tempo, le tappe di un cammino che sembra non aver conclusione, gli incontri, le menzogne dietro cui Rebecca (che ha cambiato nome a sé e al bambino) nasconde la propria vita, la sua lotta per resistere alla sofferenza, ai rimorsi, ai rimpianti, diventano, nella prosa calda e avvolgente della scrittrice americana, una via della Croce di personale redenzione (a spingere Rebecca ad andare avanti è l’amore incondizionato per il proprio figlio, la sua convinzione che un destino benevolo lo attenda da qualche parte e che a lei tocchi condurlo sano e salvo fino alla meta) e un’esplorazione insieme attonita (perché raccontata con gli occhi e il cuore di Rebecca) e disincantata (perché sussurrata dalla Oates) dell’America, della sua terra antica e cangiante e della sua gente, alle volte così semplice, alle volte così imperscrutabile. Come la volontà di Dio.
La figlia dello straniero è un romanzo magnifico e appassionante; una storia intensa, di rapinosa bellezza, sospesa sull’abisso ma ostinatamente tesa, come una freccia scoccata verso il bersaglio, verso la salvezza.
Eccovi l’incipit (la traduzione, edizione Mondadori, è di Giuseppe Costigliola). Buona lettura.
“Nel regno animale i deboli soccombono presto”. Era morto da dieci anni. Sepolto, il corpo straziato, da dieci anni. Senza nessuno che lo piangesse da dieci anni. Sarebbe lecito pensare che la figlia ormai adulta, moglie e madre, dopo tutto quel tempo si fosse sbarazzata di lui. Accidenti, se ci aveva provato! Lo odiava. Quegli occhi di brace, la faccia paonazza, come un pomodoro spellato. Si mordeva le labbra fino a farle sanguinare per quanto lo detestava. Lì dove si sentiva più vulnerabile, al lavoro. Alla Niagara Tubing, quando il rumore della catena di montaggio, ipnotico, la faceva cadere in trance: allora lo sentiva.