Recensione di “La tempesta” di William Shakespeare
“Shakespeare ama la composita complessità, l’intreccio delle cose, della vita; ama la totalità e il suo inverarsi, intanto nella concretezza delle situazioni singole e particolari, ama il canto e il controcanto. «Non appartenne a un’epoca, ma a tutti i tempi» – di lui dirà Ben Jonson; ma nulla si lascia nel frattempo sfuggire di ciò che è più immediato, legato al momento, al brillio fascinoso dell’attimo, precario e perituro.
Shakespeare può perciò essere «tragico» e «comico» al tempo stesso, teso e ironico, drammatico e lucido, raffinato e icastico, lirico e sarcastico, supremamente immaginoso e robustamente farsesco e «triviale» […]. Tutto è intreccio drammatico, incidenza di vicende e coinvolgimento di destini travolti e infranti, pur nella paradigmicità del loro pensoso ergersi e resistere; e tutto può essere, al tempo stesso, scioglimento inatteso, e fonte – nei dettagli – di stupori, d’incantamenti e mutamenti. Tutto è incessante metamorfosi”. A emergere con forza, nelle parole di Tommaso Pisanti, è il concetto, vertiginoso, di vastità, fondamento non solo dello stile scintillante e maestoso del Grande Bardo, ma della sua capacità unica di fare della vita stessa (dunque della sua potenziale infinità) materia letteraria, sostanza prima dell’arte (o se si vuole del mestiere) di raccontare. Palpita, il teatro di William Shakespeare, di un’energia misteriosa, di un miracoloso furore che la riconosciuta genialità del suo autore sembra insufficiente a spiegare; nel leggere le sue opere, infatti, si rimane senza fiato di fronte a quell’equilibrio splendido e insondabile che lega tra loro la perfezione “artificiosa” della narrazione (la corrosiva forza comica, il tratteggio sublime dei personaggi, le atmosfere sognanti, vivide, la spumeggiante vivacità dei dialoghi, delle schermaglie dialettiche, siano esse dotti confronti o il puntuto motteggiare d’impronta popolana) e l’autenticità assoluta dell’esistere, del quotidiano rinnovarsi degli affari di “coloro che vivono” (dunque di ognuno di noi), ritratti in un eterno e sempre nuovo qui e ora che è misura d’immortalità. Così, tutto in Shakespeare diviene possibile, e non per semplice licenza concessa al poeta, al drammaturgo, all’ipnotico affabulatore che con il proprio dono incanta il mondo, ma perché in quel suo realismo così particolare, allo stesso tempo al di là dell’ordinario e aderente a un esserci che tutti conosciamo (per il semplice fatto che ne partecipiamo), è come se qualsiasi cosa avesse già il proprio posto assegnato, la magia come il sussurro dispettoso dei folletti, il gioco intrigante della seduzione come il più tenebroso degli inganni, il labirinto folle della gelosia come gli arcani segreti della magia, in grado di comandare gli elementi.
Ed è questo genere di magia, frutto di saggezza ma soprattutto di bontà (intesa come incorrotto senso di giustizia) la linfa di uno degli ultimi lavori di William Shakespeare, La tempesta. Il protagonista della commedia è l’anziano Prospero, duca di Milano derubato della sua carica ed esiliato, con la figlia Miranda, su un’isola dal fratello Antonio (aiutato in questo suo complotto dal re di Napoli). Grazie al suo sapere, Prospero è in grado di prevedere quando il fratello, accompagnato dal re di Napoli e dal figlio di quest’ultimo, passerà con la nave nei pressi dell’isola in cui si trova, e quando giunge il momento prima scatena una tempesta che costringe tutti a far naufragio sull’isola, poi fa in modo che ciascun superstite non sappia nulla di quel che è accaduto ai propri compagni e li creda morti. A questo punto la vicenda prende vita, accendendosi di incontri casuali, sospetti, ipotesi e complotti, e offrendo al lettore/spettatore tanto la leggerezza del riso quanto la cupezza del dramma, e, tra i protagonisti dell’intreccio, un carattere impossibile da dimenticare, Calibano, il figlio deforme della defunta strega Sicorace, dapprima amorevolmente curato da Prospero poi da lui maledetto per aver tentato di sedurne la figlia (“Ah, ah! Se solo ci fossi riuscito! Tu me l’impedisti, altrimenti a quest’ora avrei popolato l’isola di Calibani”). Forzato all’obbedienza da Prospero, Calibano, la cui mostruosità fisica altro non è che specchio dell’interiore malvagità, è rappresentato come un ineludibile dilemma etico, poiché la sua propensione al male (“Mi hai insegnato a parlare e ne ho tratto l’unico vantaggio di poter maledire”) muove al disgusto tanto quanto la sua penosa solitudine sollecita la nostra pietà, indicando nell’indulgenza per il prossimo la strada per il perdono di noi stessi. A noi, pubblico, l’onere della scelta.
Eccovi l’incipit (traduzione di Guido Bulla). Buona lettura.
In mare, su una nave. Rumori di tuoni; fulmini. Entrano il Capitano e il Nostromo.
CAPITANO: Nostromo!
NOSTROMO: Son qui, capitano. Che c’è?
CAPITANO: Ah, bene. Da’ gli ordini ai marinai: e fa’ svelto, ché altrimenti andiamo ad incagliarci. Svelto, svelto!
(Entrano alcuni marinai)
NOSTROMO: Forza, ragazzi! Dateci dentro, da bravi: svelti, svelti, svelti! Giù quella vela maestra! State attenti al fischio del capitano, voialtri. E tu, o tempesta, soffia pure tutto il tuo vento, soffia fino a scoppiare, se ci riesci…