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Il fatiscente palazzo delle belle lettere

Recensione di “La cicuta e dopo” di Angus Wilson

 

Angus Wilson, La cicuta e dopo, Garzanti
Angus Wilson, La cicuta e dopo, Garzanti

A partire dal titolo (La cicuta e dopo, in originale Hemlock and after), l’opera prima di Angus Wilson, scritta in sole quattro settimane nel corso di una vacanza, gioca la carta della seduzione squisitamente intellettuale, di un linguaggio brillante e in qualche misura “iniziatico”, oscuro e promettente insieme, pronto, come il “gran libro della natura” di galileiana memoria, a svelare i propri tesori, e tuttavia protetto dall’affamata volgarità dei più dalla propria esuberanza stilistica, dalla compiaciuta messe di citazioni colte e soprattutto dal tema scelto, la letteratura nel suo pieno rigoglio e i suoi padri nobili.


Romanzo, curioso, seducente e tortuoso, La cicuta e dopo è specchio della personalità dell’autore (eminente uomo di lettere che fu bibliotecario al British Museum e in seguito professore universitario) e soprattutto strumento della sua dissacrante ironia; così, lo scrittore amato e ammirato nella vita vera si diverte a disegnare un se stesso invecchiato e compromesso in Bernard Sands, il personaggio principale del suo lavoro, un uomo di successo che alla soglia dei sessant’anni sta per raccogliere il frutto più prezioso della sua fatica artistica ed esistenziale, l’istituzione di un centro (Vardon Hall) destinato a ospitare scrittori e poeti. Nella concretezza di questo innegabile trionfo, tuttavia, non si riflette che la minima parte di Sands, in realtà fallito nel suo ruolo di padre (di due figli, dai quali è ignorato quando non apertamente detestato) e di marito (di Ella, donna fedele e irrimediabilmente malata di nervi), e alla disperata ricerca di una nuova primavera (o di una nuova ispirazione) nelle illusorie lusinghe dell’attrazione omosessuale verso affascinanti giovanotti. Intorno a questa personalità contorta e fondamentalmente falsa (falsità di cui è lo stesso Bernard la prima vittima), Wilson costruisce un piccolo, sordido mondo di menzogne, finzioni, ricatti e frustrazioni nel quale ciascuno si distingue più per ciò che si sforza di nascondere che per quello che può permettersi di mostrare. Così, la melliflua signora Curry, la principale avversaria di Sands nell’affare Vardon Hall (che lei avrebbe voluto trasformare in un albergo), è in realtà una mezzana priva di scrupoli, Bill, il fratello di Ella, uno scrittore incapace di scrivere (o se si vuole incapace di scrivere cose che abbiano un qualche interesse per il pubblico) che sperpera alle corse denaro che non guadagna, James, il figlio di Bernard, un borghese senza spina dorsale preoccupato solo di non perdere la propria vuota rispettabilità di facciata, e sua sorella Isabella una donna sola, rancorosa e infelice cui neppure il lavoro (al quale si dedica con tutta se stessa) offre un minimo di conforto.

Inevitabile, in questo folle girotondo nel quale la verità può assumere solo la grigia veste penitenziale della confessione (quella personale, liberatoria di Bernard alla moglie nella parte conclusiva del romanzo, o quella interessata di Ron, una delle tante pedine della signora Curry, all’autorità giudiziaria), che ogni cosa sia l’opposto di quel che sembra, che la più innocente delle schermaglie dialettiche nasconda sanguinose rese dei conti e che sugli uomini come sulle cose soffi senza sosta un vento di distruzione. Come scrive Guido Fink nell’introduzione all’edizione italiana del romanzo edita da Garzanti (collana Gli Elefanti) e magistralmente tradotta da Eugenio Montale, “di qui le frustrazioni comuni a personaggi e lettori, che a tratti si illudono di vedere e di essere visti come in fondo, istintivamente, preferirebbero; ma prima o poi si rendono conto – grazie a un inciso, a un imprevisto mutamento di prospettive, a una smagliatura – che in realtà le cose non stanno affatto come le avevano previste. Al di sotto del testo – di per sé sfaccettato e intrigante – scorre costante un subtext segreto, di cui gli stessi personaggi appaiono consapevoli, e le cui parole sottintese potrebbero, volendo, essere recuperate e portate alla superficie […]. ‘Una buona parte dei personaggi dei miei libri sono estremamente consapevoli di sé’, dice Wilson […]. ‘Esprimono dei giudizi intorno a loro stessi, quasi quasi prima ancora che riesca a farlo io… Lo considero una malattia, ma una malattia necessaria, di tutte le persone civili’”.

Opera squisita, amaramente divertente e quietamente tragica, romanzo allo stesso tempo metaletterario e antiletterario, La cicuta e dopo è un lavoro difficile da dimenticare; nella sua prosa raffinatissima brillano tanto la lucida testardaggine dell’autocoscienza quanto la deliberata infantile sconfessione di ogni responsabilità. Al pubblico, sembra dire il burattinaio Wilson, alla sua insindacabile sensibilità, l’onere di scegliere come leggere e cosa cogliere. E di accettare le conseguenze della decisione presa.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Di tutte le comunicazioni che Bernard Sands ricevette nel giorno del suo trionfo, quella che gli diede maggior soddisfazione fu la conferma definitiva, da parte del Ministero delle Finanze, dell’appoggio finanziario ufficiale. Egli riandò ai lunghi anni di lotta vittoriosa contro le varie mascherature che assume nel mondo letterario il principio del potere – editori, direttori, critici, comitati culturali, pubblico – e notò con una certa sorpresa che la sua ultima vittoria non era quasi più stata una sorpresa per lui.

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