Recensione di “Fervore di Buenos Aires” di Jorge Luis Borges
È un esercizio allo stesso tempo arduo e seducente approcciare l’opera poetica di un autore splendido e complesso come Jorge Luis Borges (di cui ho già scritto in questo blog). Scrittore magnifico, ineguagliabile per ricchezza stilistica e profondità tematica, ma soprattutto uomo di lettere e di cultura nel senso più pieno e nobile del termine, Borges nacque (e non solo cronologicamente) nel lieve sussurro dei versi.
forma lirica il suo giovanile entusiasmo per la bellezza, l’amore geloso per Buenos Aires riverbera limpido in brevi quadri descrittivi che rapiti raccontano angoli e scorci della città colti quasi per caso, per una benevola disattenzione del fato, o degli dei, risuona forte, nelle sue pagine, una certa spavalderia espressiva (caratteristica dell’ultraismo, movimento d’avanguardia che aveva contribuito a creare), ma accanto a tutte queste cose, che in qualche modo definiscono il perimetro all’interno del quale si muove il Borges poeta, già si intravedono, come pallide stelle al giungere dell’alba, alcuni dei nodi fondamentali del suo inesausto narrare in prosa: l’enigma del tempo, che inaspettatamente ci si rivela (In quell’ora in cui la luce ha una finezza di sabbia/entrai in una strada ignota, aperta in nobile spazio di terrazza […] Solo dopo pensai che quella strada della sera era estranea,/come ogni casa è un candelabro dove le vite degli uomini ardono come candele isolate,/che ogni immediato nostro passo cammina sul Golgota), la simbolica immensità del labirinto, al cui interno vive ogni senso e ogni assenza di esso, e che Buenos Aires (specie in Fervore di Buenos Aires, il primo libro di poesie pubblicato), considerata come un luogo-non luogo dal suo cittadino più illustre, appare destinata ad incarnare (I miei passi claudicarono quando stavano per calpestare l’orizzonte/e restai tra le case, quadrangolate in isolati differenti ed uguali/come se fossero tutte quante monotoni ricordi ripetuti di un solo isolato), il mistero della vita e della morte e lo spazio sconfinato della filosofia e della metafisica, che non è se non un ramo della letteratura fantastica (Ciecamente reclama durata l’anima arbitraria/quando l’ha assicurata in vite altrui, quando tu stesso sei lo specchio e la replica/di coloro che non raggiunsero il tuo tempo e altri saranno (e sono)/la tua immortalità sulla terra).
Ecco dunque che Fervore di Buenos Aires, pubblicato per la prima volta nel 1923 e abbondantemente rivisto in occasione di una nuova pubblicazione nel 1969 (è in questa versione che il libro compare nel primo volume delle opere complete edito da Mondadori, collana i Meridiani), si può considerare come un doppio esordio (e stanno qui, a mio giudizio, il fascino e la difficoltà richiamati in apertura, nei giochi di luce di una lettura che sembra sfidarti a coglierne tutte le sfumature) ; è infatti il canto di un giovane poeta e insieme l’annuncio di un viaggio in terre inesplorate e misteriose, e poi ancora più distante, fino ai confini di mondi confusamente intravisti.
A queste terre, a questi mondi, Jorge Luis Borges conduce il lettore attraverso i suoi racconti, i romanzi e i saggi, tracciando, nel solco di una sostanziale continuità esistenziale e artistica tra prosa e poesia (ribadita anche da quanto scrive nel prologo dell’edizione del 1969 di Fervore di Buenos Aires: “Non ho riscritto il libro. Ho mitigato i suoi eccessi barocchi, ho limato asperità, ho cancellato sentimentalismi e vaghezze e, nel corso di questo compito talora grato e talora scomodo, ho sentito che quel ragazzo che nel 1923 lo scrisse era già essenzialmente […] il signore che adesso si rassegna e corregge […]. Per me, Fervore di Buenos Aires prefigura quanto avrei fatto dopo), un itinerario di conoscenza che non ha eguali nella storia della letteratura.
La rosa,l’immarcescibile rosa che non canto,quella che è peso e fragranza,quella del nero giardino nell’alta notte,quella di qualsiasi giardino e qualsiasi sera,la rosa che risorge dalla tenue cenereper l’arte dell’alchimia,la rosa dei persiani e di Ariosto,quella che sempre sta sola,quella che sempre è la rosa delle rose,il giovane fiore platonico,l’ardente e cieca rosa che non canto,la rosa irraggiungibile.