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Il debito inestinguibile di chi sopravvisse alla morte

Recensione di “Necropoli” di Boris Pahor

 
Boris Pahor, Necropoli, Fazi Editore
Boris Pahor, Necropoli, Fazi Editore

Il pensiero ridotto a memoria, a ricordo, a trauma e condannato a rincorrere i propri fantasmi nell’eterno ritorno di passato e presente. E la vita e la morte che a tal punto violentano la propria natura da diventare l’una eredità dell’altra, l’una sorella dell’altra.


Sono angusti, e bui, e marcescenti come le baracche in cui venivano confinati i prigionieri destinati allo sterminio i confini che Boris Pahor traccia per la sua prosa, per la sua testimonianza di sopravvissuto all’apocalisse nazista; sono soffocanti e atroci come i convogli della morte stipati di carne umana privata di tutto; eppure, come imprevisti soffi di vento, come lo scintillio di uno sguardo innocente, questi confini così rigidi e implacabili sanno schiudersi e donare preziosissimi tesori d’umanità, miracoli di misericordia, oasi di pietà. Figlio di una terra splendida e dilaniata e di un tempo maledetto, Boris Pahor, scrittore e intellettuale triestino di lingua slovena, conobbe la realtà concentrazionaria quasi alla fine del secondo conflitto mondiale (venne fatto prigioniero e internato nel 1944 e fu rinchiuso a Dachau, Bergen-Belsen e Natzweiler-Struhof), ne sperimentò gli ultimi, violentissimi rigurgiti, sopravvisse (grazie al suo lavoro d’infermiere e alla sua ferrea, carnale volontà di vivere) alla sistematica opera di annientamento di massa e scelse (poco importa se per necessità, per dovere o per provare a lenire l’insopprimibile senso di colpa che prova chi ostinatamente vive quando tutto intorno a lui si consuma e perisce) di raccontare la sua esperienza di uomo negato. Ed è con sincerità piena che egli si assume questo compito, colorando le pagine di Necropoli – con ogni probabilità il suo lavoro più intenso e conosciuto – con i toni accesi e caldi di una partigianeria che sboccia dalle profondità dell’anima; il suo ricordo di persona viva, risvegliato da una visita al lager di Natzweiler-Struhof, lascia consapevolmente da parte il dettaglio, pur importantissimo, della ricostruzione storica per concentrarsi soltanto sulla dimensione umana della tragedia; nel suo aggirarsi (mescolato a decine di “turisti” così simili e nello stesso tempo così differenti da lui da sembrare quasi creature aliene) in quel geometrico perimetro chiuso da barriere di filo spinato elettrificato che per un interminabile pugno di mesi è stato tutto il suo mondo, Pahor tesse il filo invisibile che lega ciò che è stato a ciò che è. Dalla terra, che ignara ha bevuto il sangue di migliaia di persone e che il prigioniero, pur sapendola cieca e sorda ai misfatti dell’uomo, pur comprendendo la ciclicità immortale dei suoi ritmi e del suo respiro, non può fare a meno di considerare in qualche modo partecipe della malvagità degli aguzzini, ai sudici pagliericci che ospitavano i dannati ridotti a ombre, a scheletri, alla fine delle loro massacranti giornate di lavori forzati, di vessazioni, di umiliazioni, di sevizie inflitte con selvaggio, animalesco piacere, tutto è per lo scrittore sloveno reale, presente, attuale, come se l’incubo non fosse mai finito, o meglio, come se da un incubo di questo genere non ci si potesse mai svegliare, perché non esiste scampo dalla verità.

Scrive Claudio Magris nella prefazione al volume edito da Fazi (e tradotto dallo sloveno da Ezio Marin, con revisione del testo a cura di Valerio Aiolli): “Necropoli è un’opera magistrale […] anche per la sua limpida sapienza strutturale, per l’intrecciarsi dei tempi – verbali ed esistenziali – che intessono il racconto. In un libro in cui non c’è la minima sbavatura vi sono momenti particolarmente indimenticabili: le sequenze cinematografiche della collettiva […] massa dei detenuti sotto il getto d’acqua delle docce, la rasatura del pube che assimila i prigionieri a cani che si annusino a vicenda, le tenaglie che trascinano gli scheletri su cumuli di altri scheletri, i dettagli del lavoro o delle cure prestate dai detenuti-infermieri come lo stesso autore, le forche per le impiccagioni, gli stratagemmi per salvarsi applicando un cartellino con un altro nome all’alluce di un cadavere, i deliri dei morenti; la bocca sempre urlante dei tedeschi assurta a caratteristica antropologica, il ciarpame di fetida biancheria dei morti purtuttavia preziosa per i vivi, il silenzio del fumo che esce dai camini; l’esigenza di ordine che paradossalmente permane nell’esecuzione dell’infame lavoro forzato, il segreto egoismo nell’aiuto prestato a un condannato con il sollievo di non essere al suo posto, i miserabili e benvenuti baratti di cicche e croste di pane fra i prigionieri; l’abiezione storica divenuta squallore cosmico, vuoto assoluto”.

Racconto dell’orrore e insieme antidoto a esso, Necropoli è un libro vertiginoso e possente; un libro importante, lucido e penetrante nelle riflessioni che esprime e dignitoso persino nei (rari) infortuni in cui cade (come l’accusa a Nietzsche, “filosofo del nazismo”, peraltro subito revocata in dubbio da un’appropriata citazione di Bertrand Russell). È un libro che dovrebbe trovar posto in ogni coscienza. E in ogni cuore.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.
 
Domenica pomeriggio. Il nastro d’asfalto liscio e sinuoso che sale verso le alture fitte di boschi non è deserto come vorrei. Alcune automobili mi superano, altre stanno facendo ritorno a valle, verso Schirmek; così il traffico turistico trasforma questo momento in qualcosa di banale e non mi permette di mantenere il raccoglimento che cercavo. So bene che anch’io, con la mia macchina, faccio parte di questa processione motorizzata, eppure sono sicuro che, vista la mia passata intimità con questi luoghi, se sulla strada fossi solo, il fatto di viaggiare in automobile non scalfirebbe l’immagine onirica che dalla fine della guerra riposa intatta nell’ombra della mia coscienza.

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