Recensione di “Opinioni di un clown” di Heinrich Böll
Nella prosa di Heinrich Böll, nell’inflessibile pretesa di verità che la contraddistingue, nella radicale severità del suo procedere, la Germania ferita dall’incubo hitleriano, il Paese devastato dalla guerra che a fatica si rialza, prova a ricostruirsi una dignità e nel giro di pochi anni trova la forza per riorganizzarsi tanto a livello politico quanto dal punto di vista economico, ha nello stesso tempo la sua voce e una fredda, lucidissima coscienza critica.
Böll ferisce, squarcia, il suo è un accanimento feroce: la sua scrittura urla, ma non c’è traccia in essa del fiato corto e del rancore meschino propri degli sfoghi personali, perché il lamento del grande autore tedesco è quello di un’anima, di un popolo. Heinrich Böll riesce a essere carnale nelle sue opere, a dar vita a una letteratura quasi insopportabilmente fisica; il dolore che racconta, l’ansia di giustizia che si respira nelle sue pagine, il travaglio etico ed esistenziale che sopporta, la fiera lotta contro ogni menzogna, il dovere, sentito come irrinunciabile, di testimoniare il tragico passato della sua terra, di essere memoria degli orrori trascorsi, di ricordare, costi quello che costi, ciò che è stato a persone che più di tutto desidererebbero dimenticare, chiudere gli occhi, voltare le spalle a tutto quel che è accaduto, non sono semplicemente la sostanza narrativa dei suoi romanzi, sono il senso profondo del suo impegno, le ragioni sulle quali si fonda.
Böll scrive quel che vive, quel che prova, e lo fa dando alla parola scritta la medesima immediatezza che hanno i sentimenti; la bellezza del suo lavoro riposa quasi per intero nella sua autenticità, nella sua sincerità. E sincero fino alla brutalità è uno dei suoi capolavori, Opinioni di un clown, virulento j’accuse di un uomo comune (il clown Hans Schnier) deciso a non arrendersi alle logiche vili e compromissorie della società in cui vive. Offeso, umiliato, vinto pur senza mai essere stato domato, Schnier non è solo un simbolo universale (in lui, nel suo fallimentare percorso artistico, che si chiude a soli ventisette anni a causa di una caduta sul palcoscenico, l’autore rappresenta il popolo tedesco, in special modo le classi più povere), è lo specchio di una nazione. Il solo artificio letterario che Böll si permette è relativo alla vita del suo protagonista; le sue riflessioni, i suoi giudizi, le decisioni, il fulmineo naufragio della sua esistenza (la vicenda si apre e si chiude in una manciata di ore) originano da irrisolti traumi personali, come fossero questioni che riguardano soltanto lui, ma questo non è che un “trucco” narrativo: quel che Böll offre davvero al lettore, infatti, è il nudo ritratto della Germania.
Della Germania nazista prossima al collasso, descritta con compiaciuta perfidia attraverso il rapporto conflittuale tra Schnier e la madre, fervente patriota che manda a morire la figlia – arruolatasi “volontaria” nella Flak, la forza d’artiglieria contraerea perché “ciascuno deve fare la sua parte, per ricacciare gli yankees ebrei dalla nostra sacra terra tedesca” – dimentica del fatto “che un bel pacchetto delle azioni del carbone è da due generazioni nella mani della nostra famiglia. Da settant’anni gli Schnier fanno quattrini con il lavoro che la nostra sacra terra tedesca deve sopportare: villaggi foreste castelli cadono davanti alle loro scavatrici come le mura di Gerico”, e della nazione borghese e perbenista post bellica, che ha regolato troppo in fretta i conti con il proprio passato (al punto da considerare l’insegnante di Schnier, che negli ultimi giorni del regime spiegava agli alunni l’importanza “pedagogica” di fucilare i codardi disertori che non si sacrificavano per la patria, un uomo dal “coraggioso passato politico perché non fu mai iscritto al partito”) e che prospera al riparo dal rimorso protetta dal perdono a buon mercato garantito dalla morale cattolica.
Morale meschina, opportunista, decisamente troppo legata alle “cose di questo mondo” per essere spirituale – “I cattolici mi rendono nervoso perché sono sleali” afferma il clown nel corso di una delle numerose telefonate che punteggiano la giornata raccontata nel romanzo – della quale Schnier è la prima vittima (ed ecco di nuovo il pretesto della questione privata: la fidanzata che lo ha da poco lasciato, Maria, cattolica, lo ha fatto perché spinta dalle continue pressioni provenienti dagli ambienti religiosi di riferimento, ostili alla coppia, non unita in matrimonio), ma che rischia di soffocare, con la propria calcolata falsità, l’architettura etica di una società. Giudice e giuria, Schnier legge le sue sentenze e formula le sue condanne affidandole all’impalpabilità del suo livore (è un uomo del popolo, è il popolo, il popolo tedesco, e il popolo tedesco è un popolo sconfitto): sa di non potere nulla, di combattere una guerra che ha già perduto, e allo stesso tempo sa di non poter addossare ad altri colpe che sono sue. Gli sbagli di Schnier, tuttavia, sono quelli degli uomini, di ciascuno di noi, cominciano e finiscono con noi stessi e con le persone cui in qualche modo siamo legati (l’abbandono di Maria dipende anche dalle scelte del clown); quelli della Germania, di Dio, o di chi si arroga il diritto di parlare in sua vece, spalancano voragini nelle quali precipitiamo tutti, non importa se colpevoli o innocenti.
Opinioni di un clown è una discesa agli inferi, un libro che non dà tregua, che toglie il respiro. Ma è un libro che parla di verità, responsabilità, che indica con chiarezza qual è il confine oltre il quale non abbiamo più il diritto di dirci uomini. È un’opera che ci chiama a sé, alla quale non possiamo rinunciare.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Era già buio quando arrivai a Bonn. Feci uno sforzo per non dare al mio arrivo quel ritmo di automaticità che si è venuto a creare in cinque anni di continuo viaggiare: scendere le scale della stazione, risalire altre scale, deporre la borsa da viaggio, levare il biglietto dalla tasca del soprabito, consegnare il biglietto, dirigersi verso l’edicola dei giornali, comprare le edizioni della sera, uscire, far cenno a un tassì. Per cinque anni quasi ogni giorno sono partito da qualche luogo e sono arrivato in qualche luogo, la mattina ho disceso e salito scale di stazioni, il pomeriggio ho disceso e risalito scale di stazioni, ho chiamato un tassì, ho cercato la moneta nella tasca della giacca per pagare la corsa, ho comperato giornali della sera alle edicole e, in un angolo riposto del mio io, ho gustato la scioltezza perfettamente studiata di questo automatismo. Da quando Maria mi ha lasciato per sposare Züpfer, quel cattolico, il ritmo è diventato ancora più meccanico, senza perdere in scioltezza. Per la distanza dalla stazione all’albergo, dall’albergo alla stazione, c’è un’unità di misura: il tassametro. A due marchi, tre marchi, quattro marchi dalla stazione. Da quando Maria non c’è più, qualche volta ho perso il ritmo, ho confuso l’albergo con la stazione, ho cercato nervosamente il biglietto ferroviario davanti al portiere dell’albergo, oppure ho chiesto all’impiegato che ritira i biglietti all’uscita della stazione il numero della mia camera. Qualcosa che si può chiamare destino, mi riportava alla mente il mio mestiere e la mia situazione. Sono un clown.