Recensione di “Sodoma e Gomorra – Alla ricerca del tempo perduto IV” di Marcel Proust
“Razza su cui pesa una maledizione, costretta a vivere nella menzogna e nello spergiuro perché sa che il suo desiderio – ciò che costituisce per ogni creatura la suprema dolcezza del vivere – è considerato punibile e vergognoso, inconfessabile; costretta e rinnegare il proprio Dio, giacché, se anche siano cristiani, quando compaiono in veste d’imputati alla sbarra del tribunale, devono, davanti al Cristo e al suo nome, difendersi come da una calunnia da ciò che è la loro stessa vita; figli senza madre, cui sono obbligati a mentire persino al momento di chiuderle gli occhi;
amici senza amicizie, malgrado tutte quelle che il loro fascino sovente riconosciuto può far nascere e che il loro cuore, non di rado buono, saprebbe provare; ma è lecito chiamare amicizie le relazioni che vegetano solo col favore d’una menzogna e dalle quali il primo slancio di confidenza e di sincerità cui fossero tentati d’abbandonarsi li farebbe respingere con disgusto, a meno che non avessero a che fare con uno spirito imparziale, se non addirittura simpatetico, che in tal caso, tuttavia, fuorviato nei loro confronti da una psicologia convenzionale, attribuirebbe al vizio confessato anche l’affetto che gli è più estraneo, allo stesso modo che certi giudici suppongono e giustificano più facilmente l’assassinio negli invertiti e il tradimento negli ebrei, per ragioni tratte dal peccato originale e dalla fatalità della razza?”. È l’amore, in particolar modo l’amore omosessuale, considerato nel medesimo tempo con cruda razionalità e tormentata passione, il cuore narrativo e tematico di Sodoma e Gomorra, quarto volume della Recherche di Marcel Proust. Il grande scrittore francese lo racconta (anzi, non è eccessivo affermare, laddove si ponga la giusta attenzione alla sofferta sincerità della sua prosa, che lo confessi) attraverso i suoi personaggi; il nobile, fiero, eppure vinto e perduto signor di Charlus, e lui stesso, voce narrante del romanzo, innamorato di Albertine, che cerca il proprio appagamento in un amore totale, privo di barriere e restrizioni, capace di guardare, con identico interesse, agli uomini e alle donne. L’amore, l’amore naturale e nonostante ciò proibito, l’amore che sorge spontaneo e che tuttavia la società considera malato, immorale, vizioso più di certi vizi “come il furto, la crudeltà, la malafede, che però l’uomo comune, comprendendoli meglio, è più propenso a scusare”, si fa, nel mezzo del cammino etico, estetico ed esistenziale proustiano, simbolo della vita stessa, della sua invincibile irrazionalità, delle sue contraddizioni, delle sue ingiustizie. Per questo Proust alla vita l’accosta, o per dir meglio lo sovrappone, e nel descriverlo, nel disegnare con impressionante minuzia i contorni di un sentimento circondato dalla paura (di venire alla luce) e dall’esecrazione (cui inevitabilmente va incontro una volta divenuto di pubblico dominio), moltiplica i paragoni e gli esempi: la natura, la storia, l’arte, la religione, il mito, la politica, ogni umana manifestazione del genio, ogni atto sociale, ogni inclinazione è un possibile specchio di quel sentimento che a prezzo di enormi sacrifici e di una tragica condanna all’infelicità si sforza in ogni modo di celar se stesso pur ingegnandosi a trovar sfogo, soddisfazione.
Ma se ogni aspetto della vita, cui non fa eccezione neppure la morte (quella della nonna di Marcel, che proprio nel legame con Albertine troverà conforto al suo dolore), torna, come alla propria sorgente, all’amore, se nella circolarità di questa equivalenza il tempo degli uomini scorre ordinato nel suo incessante alternarsi di luce e ombra, ecco che oltre le allegorie e le similitudini trova il proprio spazio e la propria dimensione la perfetta coincidenza del vivere e dell’amare, della vita cercata, inseguita, sprecata e dell’amore cercato, inseguito, precariamente goduto e per questa ragione con sempre maggior determinazione preteso. Facce di un’identica medaglia, Marcel e il signor di Charlus donano interamente all’amore le loro esistenze; officianti e vittime, celebrano il sacrificio dell’essere: la restituzione a sé, che sola riposa nell’essere per qualcun altro.
Eccovi l’incipit. La traduzione per Mondadori, è di Giovanni Raboni. Buona lettura.
Come già sappiamo, quel giorno (il giorno in cui doveva aver luogo il ricevimento della principessa di Guermantes), prima di fare al duca e alla duchessa la visita che ho appena descritta, avevo spiato il loro ritorno e compiuto, durante il mio appostamento, una scoperta concernente, in particolare, il signor di Charlus, ma così importante, di per se stessa, che ho preferito rinviarne il racconto sinché non avessi, come ho ora, la possibilità di assegnargli il posto e lo spazio necessari.