Recensione di “Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi
Intendere la letteratura come impegno nei confronti della verità, come rigorosa presa di posizione, come assunzione di responsabilità, come inequivoca dichiarazione d’intenti, come limpida manifestazione del proprio credo politico, sociale, etico. Considerarla, insomma (e dunque utilizzarla), non come fine in sé ma come strumento per qualcosa di più importante, di più significativo: l’oggettiva ricostruzione dei fatti, il loro disvelamento, la loro denuncia.
A questo genere di letteratura – il cui principale, per non dir unico compito è “parlare alle coscienze” per risvegliarle dal torpore in cui giacciono – si richiama Antonio Tabucchi in uno dei suoi romanzi più famosi e riusciti, Sostiene Pereira, pubblicato nel 1994, salutato da un grande successo di pubblico e vincitore, in quello stesso anno, del premio Campiello.
Ambientato a Lisbona nel 1938, quando a governare il Portogallo era la feroce dittatura di Salazar, Sostiene Pereira è una sorta di romanzo storico quanto a collocazione temporale e geografica e nello stesso tempo (per struttura e soprattutto finalità) un romanzo psicologico. Il protagonista, Pereira, è un giornalista che, abbandonata la cronaca nera, lavora come responsabile della pagina letteraria di un piccolo quotidiano, il Lisboa; indifferente a tutto quel che accade intorno a lui (le violenze della polizia politica, l’informazione vergognosamente manipolata, le persecuzioni ai danni dei contestatori, di chiunque si ribelli al regime), Pereira vive nel suo mondo fatto di “belle lettere”, cullandosi nel ricordo della moglie scomparsa e dedicandosi anima e corpo al proprio lavoro.
Trasparente metafora delle intenzioni dell’autore, Pereira è la “coscienza da risvegliare”; seppur incolpevole – il mite giornalista non è in alcun modo organico alla dittatura, non partecipa delle sue nefandezze, semplicemente preferisce non guardarla per quel che realmente è – egli comunque manca, e gravemente, al proprio dovere; è un uomo colto, ha gli strumenti (il giornale) e la voce (la sua professione di giornalista) per parlare alla gente, per farsi sentire, per raccontare la verità, per testimoniarla, ma non lo fa. Conosce la letteratura, possiede sufficiente sensibilità per amarla e dedizione bastante a trasmetterla, eppure la tradisce ignorandone la forza intrinsecamente rivoluzionaria, il vitale alito libertario.
Il suo peccato, suggerisce Tabucchi, non è quello degli assassini e dei carnefici, e tuttavia a lui non può andare il pensiero commosso che si riserva alle vittime, perché Pereira del regime non è vittima, piuttosto un “complice silenzioso”, incatenato al proprio simulacro di vita dalla paura, anzi dal terrore di morire. L’esistenza di Pereira è un viaggio lungo il sottilissimo crinale che divide coloro che non hanno diritto a giustificazione alcuna per i propri atti da coloro che, smarriti ma non completamente perduti, sono ancora in tempo a salvare se stessi; a lui, per imperscrutabili motivi (o più probabilmente per nessuna ragione in particolare), il destino offre un’occasione, una possibilità di riscatto, e Pereira, fra mille indecisioni e tentennamenti, sceglie di coglierla.
Conosce per caso il giovane Monteiro Rossi, come lui giornalista, ma al contrario di lui politicamente attivo, impegnato, militante, e rimane insieme affascinato e spaventato dalla sua passione civile, dalla voglia di lottare, dal coraggio che dimostra affrontando a viso aperto la censura del regime e smascherando le volgari menzogne contrabbandate per verità dagli organi di stampa asserviti al potere. Così, poco alla volta, anche Pereira si affaccia alla realtà, vede quel che si nasconde dietro le verità ufficiali della dittatura e matura una nuova coscienza, un nuovo io, una nuova anima (ognuno di noi, gli spiega un’altra persona conosciuta per caso, il dottor Cardoso, anch’egli avversario del salazarismo che medita di abbandonare il Portogallo, ospita in sé non una sola anima, ma una confederazione di anime; talora capita che l’anima che fino ad allora aveva dominato sulle altre venga sostituita da un’altra ed è da quel momento in poi che l’uomo cambia, a volte radicalmente, la propria visione del mondo).
Sarà questa nuova anima, infiammata dal verificarsi di una tragedia, a consumare del tutto il vecchio giornalista chiuso in se stesso trasformandolo in un combattente, in un intellettuale consapevole non soltanto dei propri mezzi ma del proprio dovere.
Fluida, equilibrata, potente e carica di suggestione, la scrittura di Antonio Tabucchi si mette con umiltà al servizio di un’opera che non vuole limitarsi a raccontare una storia edificante ma ha l’ambizione di insegnare, indicare una strada, essere d’esempio. Sostiene Pereira non è soltanto un libro bellissimo, è un’idea precisa, rivendicata con forza, di cosa debba essere la letteratura. Un’idea importante, che tutti scuote e con la quale ognuno di noi è chiamato a confrontarsi.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d’estate. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava. Pare che Pereira stesse in redazione, non sapeva che fare, il direttore era in ferie, lui si trovava nell’imbarazzo di mettere su la pagina culturale, perché il “Lisboa” aveva ormai una pagina culturale, e l’avevano affidata a lui. E lui, Pereira, rifletteva sulla morte. Quel bel giorno d’estate, con la brezza atlantica che accarezzava le cime degli alberi e il sole che splendeva, con una città che scintillava, letteralmente scintillava sotto la sua finestra, e un azzurro, un azzurro mai visto, sostiene Pereira, di un nitore che quasi feriva gli occhi, lui si mise a pensare alla morte. Perché? Questo a Pereira è impossibile dirlo. Sarà perché suo padre, quando lui era piccolo, aveva un’agenzia di pompe funebri che si chiamava Pereira la Dolorosa, sarà perché sua moglie era morta di tisi qualche anno prima, sarà perché lui era grasso, soffriva di cuore e aveva la pressione alta e il medico gli aveva detto che se andava avanti così non gli restava più tanto tempo, ma il fatto è che Pereira si mise a pensare alla morte, sostiene. E per caso, per puro caso, si mise a sfogliare una rivista. Era una rivista letteraria, che però aveva anche una sezione di filosofia.