Recensione di “Ognuno muore solo” di Hans Fallada
È la Germania del nazionalsocialismo trionfante, del Reich millenario, dello “spazio vitale” tedesco conquistato senza sforzo apparente prima a spese dei Paesi vicini e poi dell’Europa intera, quella che racconta, con una prosa di straziante sincerità, lo scrittore tedesco Hans Fallada (pseudonimo di Rudolf Wilhelm Friedrich Ditzen) nel suo romanzo Ognuno muore solo.
Una Germania nuda, stregata, avvelenata e disumana; una nazione dominata, asservita, in pari tempo complice e vittima del proprio destino d’orrore e miseria; una terra malata d’odio e morte nella quale la sopravvivenza è prima di tutto una scelta di natura etica e matura nella consapevolezza, nella presa di coscienza del dovere di opporsi, di resistere, di arginare l’impetuosa corrente del fanatismo, dell’arbitrio e della cieca violenza rivendicando, o per dir meglio riconquistando, una misura del vivere che sia la medesima per tutti, che conosca il dolore di un padre e di una madre per il figlio perduto al fronte, che accetti il disimpegno del singolo, il suo rifiuto di obbedire all’odio di stato, la scelta di non marciare all’unisono con un popolo cui non sente più di appartenere. Nel disegnare la notte hitleriana della Germania Hans Fallada non inventa niente, ma non è questo il pregio maggiore di Ognuno muore solo, ultimo lavoro della sua produzione; quello che più profondamente colpisce in questo romanzo è il suo essere cronaca di un fatto realmente avvenuto, ricostruzione di una ribellione, testimonianza di un atto di coraggio e dignità luminoso e preziosissimo perché fin dal principio destinato al fallimento.
Protagonisti della storia narrata da Fallada – che primo Levi ha acutamente definito “uno dei più libri sulla resistenza tedesca contro il nazismo” – sono infatti due uomini della classe operaia, Anna e Otto Quangel (nella realtà si chiamavano Otto ed Elise Hampel), un marito e una moglie non più giovani che hanno appena ricevuto la più sconvolgente delle notizie: il loro unico figlio è caduto in guerra, morto da eroe per la gloria del Reich. Prende le mosse da qui, da questa intima tragedia che la follia propagandistico-sanguinaria di Adolf Hitler moltiplicherà a dismisura, il risveglio, atroce ma proprio per questo liberatorio, della coppia, fino a quel momento in nulla diversa dagli altri milioni di tedeschi. La concessione statale della patente d’eroe a un cadavere, l’idea che la morte di un figlio possa, anzi debba essere benedetta, guardata se non con favore di certo con orgoglio, persino esibita, come fosse un’onorificenza, restituisce a quei due uomini le esatte proporzioni di ciò che stanno vivendo. In un momento, come per un’improvvisa epifania, o se si vuole per lo spezzarsi di un incantesimo, entrambi comprendono cos’è diventato (anche per loro concorso) il Paese in cui vivono, si rendono conto di cosa sia davvero la guerra, di cosa significhi combatterla, e quanta terribile distanza ci sia tra i più infiammati e ispirati discorsi alla nazione e la realtà che ne consegue. Ecco allora che il loro essere uomini, cittadini e tedeschi non significa più intrecciare i propri destini a quello della patria, accada quel che accada, ma provare a recuperare, dagli abissi in cui è sprofondata, la coscienza di un popolo intero, fare appello alla sua intelligenza, al suo cuore, alla sua anima: dire la verità. E la verità, l’irresistibile forza rivoluzionaria della verità, questi due uomini senza mezzi, risorse e conoscenze l’affidano a delle cartoline, cartoline scritte con fatica, in una lingua che padroneggiano a malapena, che poi vengono lasciate nei palazzi di tutta Berlino affinché qualcuno le trovi, le legga, rifletta, capisca, e finalmente volti le spalle al führer.
Fallada fa sua la netta demarcazione vittoriniana tra uomini e no, ma non lascia che il suo romanzo, questa intensissima “biografia degli ultimi”, esaurisca la propria forza vitale in un j’accuse etico-politico, che pure scorre potente nelle oltre 800 pagine del libro; egli va oltre la denuncia del nazismo e squaderna dinanzi al lettore lo spettacolo agghiacciante di una deriva ormai compiuta, di una morte annunciata; nel descrivere la caccia all’uomo che poco alla volta si fa più serrata, più implacabile, più furibonda, più isterica, e che riflette, più che una reale preoccupazione dei gerarchi al potere verso la “minaccia” rappresentata dalle cartoline, il senso di frustrazione, di rabbia, di incredulità che inevitabilmente scatena, in ogni tirannia, la più remota possibilità di ribellione; nel seguire l’ostinata e sterile battaglia dei coniugi Quangel, nell’abbandonarsi alle fantasie di riscatto da loro coltivate, e infine nel supino rimettersi ai fatti, alla storia così come si è compiuta (delle quasi 300 cartoline lasciate la grandissima maggioranza furono consegnate alla polizia, solo di 18 non si trovò traccia, e queste con ogni probabilità andarono distrutte quasi immediatamente dopo il loro ritrovamento; lo sforzo dei Quangel, dunque, fu del tutto vano), lo scrittore tedesco non può che chinare il capo di fronte alla sovrana banalità del male. E tuttavia la sua storia di dolore, punizione e morte è prima di ogni altra cosa una storia di libertà; e commuove, e regala speranza, il fatto che sia una storia vera.
Eccovi, invece dell’incipit, la prefazione dell’autore al romanzo. La traduzione, per Sellerio, è di Clara Coïsson. Buona lettura. E auguri a tutti di buona Pasqua.
Le vicende narrate in questo libro seguono a grandi linee gli atti della Gestapo sull’attività illegale svolta dal 1940 al 1942 da due coniugi berlinesi del ceto operaio. Solo a grandi linee: un romanzo, infatti, ha le sue leggi e non può seguire in tutto la realtà. Perciò l’autore ha evitato di procurarsi notizie autentiche sulla vita privata di queste due persone: egli doveva rappresentarle così come le aveva davanti agli occhi. Sono, quindi, due figure di fantasia, come anche tutte le altre figure del romanzo sono liberamente inventate. Ciò nondimeno l’autore crede alla verità interiore di ciò che ha raccontato, anche se qualche particolare non corrisponde interamente ai dati di fatto. Qualche lettore troverà che in questo libro si muore e si tormenta un po’ troppo. L’autore si permette di far notare che il suo libro tratta quasi esclusivamente di persone che avversarono il regime di Hitler, di esse e dei loro persecutori. Negli anni fra il 1940 e il 1942, e prima e dopo di essi, in questi ambienti le morti erano piuttosto frequenti. Un buon terzo del romanzo si svolge nelle prigioni e nei manicomi, e anche qui la morte era un fatto consueto. Spesso l’autore si è rammaricato di dover tracciare un quadro così fosco; ma una maggior luce sarebbe stata una menzogna.
“Spesso l’autore si è rammaricato di dover tracciare un quadro così fosco; ma una maggior luce sarebbe stata una menzogna”
no comment
ciao Paolo, Buona Pasqua e …. alla prossima
Libro importante, Nino. Tanti auguri di buona Pasqua anche a te
Ho letto il libro uno o due anni fa e lo ricordo con grande affetto. All’epoca riflettevo su come a un certo punto il romanzo si trasformi in una sorta di poliziesco, con la sostanziale differenza che invece di simpatizzare per l’investigatore (ma forse ce n’erano due, oramai non lo ricordo più), non si può che sperare che per una volta le capacità deduttive di queste intelligenze prestate al male possano fallire. Almeno per una volta.
Hai ragione, è proprio così. A un certo punto il romanzo assume toni polizieschi e sì, ci sono due investigatori che si avvicendano, e fatichi a prendere le loro parti, anche se poi quello che risolve il caso una sua umanità finisce per rivelarla.