Recensione di “Il rosso e il nero” di Stendhal
“Non ho inventato nulla” dichiara Stendhal riferendosi a Il rosso e il nero, opera ispirata a un fatto di cronaca comparso, tra il 28 e il 31 dicembre 1827, sulla Gazette des Tribunaux: a riempire le sue pagine, il resoconto del processo intentato contro Antoine Berthet, ex seminarista accusato di aver fatto fuoco, nella chiesa di Brangues, cittadina dell’Isère, contro Madame Michoud de la Tour, madre dei ragazzi di cui l’uomo era stato, per qualche tempo, istitutore. Come giudicare l’affermazione dello scrittore francese?
Secondo Mauro Lavagetto, autore dell’introduzione al romanzo pubblicato da Garzanti (di cui è anche traduttore), come una spavalda civetteria, perché se è senz’altro vero che la cronaca giudiziaria gli ha fornito uno spunto assai significativo, è altrettanto certo che Stendhal “ha inventato tutto. È come se, partendo dalla Gazette des Tribunaux, avesse formulato a se stesso una domanda: come si sarebbero svolti i fatti e come avrebbero potuto essere interpretati se, al posto di Berthet, ci fosse stato Julien, un giovane provinciale, allievo di Plutarco e di Napoleone? È questo il nucleo originario del romanzo ed è da queste premesse che Stendhal ha dipanato la sua trama, correggendo la ‘realtà opaca’ che emerge dalle cronache processuali, e trasformandola nella smagliante finzione del suo romanzo”.
Così, quel che di banale, di misero e di meschino offre la vita vissuta, si veste, nella fiammeggiante prosa stendhaliana, nella labirintica, contraddittoria ed estenuante architettura dei caratteri, nel tormentato rincorrersi delle passioni, nella poetica esasperazione di ogni sguardo, di ogni respiro, d’eroico e di tragico.
L’immaginazione creatrice di Stendhal si nutre d’eccessi; egli dimostra d’amare (o quantomeno di esser disposto a comprendere, e finanche a giustificare) la temerarietà più del coraggio, e l’istintualità immediata e imprevedibile più del cauto ragionare, e su queste caratteristiche, su questi tratti psicologici burrascosi e affascinanti, propri di un temperamento capace tanto di slanci di eccezionale nobiltà quanto di cadute nelle più nere turpitudini, plasma un personaggio immortale, quel Julien Sorel di umilissimi natali (è figlio di un rude, ignorante e brutale proprietario di una segheria) consumato dalla brama di farsi strada nel mondo, dal desiderio di divenirne in qualche misura imperatore, come il suo idolo Napoleone.
Protagonista indiscusso del romanzo, Sorel è un giovane di ottime speranze, allo stesso tempo benvoluto e invidiato; a lui, modello di virtù e vizio, Stendhal contrappone tutti gli altri attori della vicenda narrata, a volte con perfidia, come nel caso di Renal (sindaco dell’immaginaria Verrières, cittadina della Franca Contea nella quale la storia è ambientata), uomo pavido, esponente di quella borghesia miope e affarista capace di ragionare esclusivamente in termini di guadagni e interessi, altre volte con trasparente ammirazione e commosso rispetto, come accade per la moglie di Renal, che con purezza e limpido coraggio si abbandona, riamata, all’amore per Julien, nominato precettore dei suoi figli, altre volte ancora con partecipazione, verrebbe quasi da dire con una sorta di partigianeria emotiva, come quando disegna il profilo del severo abate giansenista Pirard, che per Julien Sorel nutre un affetto particolare e alla cui figura fa da contraltare negativo quella di un altro ecclesiastico, Frilair, anch’egli abate, uomo di potere eccessivamente compromesso con le cose del mondo.
È presso i Renal che si decidono le sorti di Sorel, quasi senza che egli se ne renda conto. Qui il ragazzo si abbandona ai sentimenti, ama, esulta, si dispera, prende ogni giorno mille risoluzioni che immediatamente dopo abbandona, vive forse per la prima volta, e alla fine, inseguito da sospetti e voci incontrollate, è costretto ad abbandonare ogni cosa e fuggire. Con sé porta soltanto la propria fama di giovane dotato, colto e fiero. Una breve parentesi in seminario non gli procura altro che insofferenza verso le meschinità del suo prossimo, finché i buoni uffici di Pirard non gli consentono di trovare un nuovo impiego presso la nobile famiglia dei La Mole, come segretario del marchese patriarca. Ed è questo punto che l’ansia di riscatto di Sorel, e la vergogna che prova per le sue origini plebee (che non gli concede un attimo di tregua), esplodono in tutta la loro violenza; a scatenarle, il rapporto con la figlia minore del marchese La Mole, Mathilde, bella e altera, attratta da Julien ma timorosa di sacrificare, legandosi a lui, la posizione sociale che per rango le spetta e che il padre è ben deciso a regalarle.
A vincere, nel loro rapporto di forza all’apparenza così sbilanciato a favore di Mathilde, sarà Sorel, e con conseguenze inimmaginabili: la scoperta, da parte di Mathilde, di essere incinta, la decisione di rivelare al padre la sua relazione con il loro umile segretario, l’iniziale ira dell’uomo, che tuttavia a un certo punto acconsente a dare al ragazzo un titolo e una rendita e infine una lettera, che solo la disperazione ha reso possibile, scritta dalla signora di Renal e indirizzata al marchese nella quale si svela quel che c’è stato tra la donna e l’ex precettore. Venuto a conoscenza di quel passato così scabroso, il marchese rifiuta ogni aiuto al seduttore di sua figlia, che, persa la gloria tanto agognata a un passo dalla conquista, elabora un folle piano di vendetta e spara (senza ucciderla) alla sua amante di un tempo nel corso di una funzione in chiesa.
L’arresto di Sorel, il processo, la condanna a morte e l’attesa dell’esecuzione, si consumano, nel raccontare di Stendhal, nello stesso modo in cui si sono svolti gli eventi fino a quel terribile momento; sono ancora i moti dell’animo, vanamente contrastati dalla ragione, a prevalere.
Rimorsi, rimpianti, folli giuramenti, atroci sacrifici si susseguono come fossero incubi o deliri di una mente prossima a perdersi. Stendhal non offre requie alla sofferenza patita dai suoi personaggi perché essa sola, egli sembra dirci, è la misura della dignità del loro vivere.
Lontani da ogni compromesso, da ogni accomodamento, da ogni timore “borghese”, Sorel, Mathilde e la signora di Renal, seppur ciascuno a modo proprio, non temono scandalo né la disapprovazione di una società nella quale non si riconoscono, e Stendhal ne celebra l’eroismo (zoppo se si vuole, ma indubitabile) offrendoceli senza mediazione alcuna, in tutta la loro deforme grandezza. Come ben scrive Lavagetto: “Julien ha perduto, ma al mondo che lo circonda […] può gridare: Canaglie! Canaglie! Canaglie! Il suo no è fallimentare, ma categorico e pieno di nobiltà […]. ‘Ci sono uomini che nascono postumi’ diceva, facendo eco a Stendhal, uno dei suoi più grandi ammiratori, Friedrich Nietzsche”.
Ecco l’incipit del romanzo. Buona lettura.
La cittadina di Verrières può essere considerata una delle più graziose della Franca Contea. Le sue case bianche, dai tetti aguzzi e dalle tegole rosse, si arrampicano sul declivio di una collina dove macchie di vigorosi castagni mettono in risalto ogni minima sinuosità. Il Doubs scorre qualche centinaio di piedi sotto le fortificazioni costruite un tempo dagli spagnoli e ora in rovina.