Recensione di “Il clan dei Mahé” di Georges Simenon
Il viaggio, metafora fin troppo trasparente e abusata della presa di coscienza di sé, del tempo perduto, della vita mai davvero vissuta, riflesso nello specchio deformante della vacanza borghese, della villeggiatura quieta e noiosa, muta nel suo opposto, inciampa in un opaco groviglio di rimpianti, si smarrisce in un cortocircuito pensieri confusi, di desideri intensi e inesplorati, di sogni a occhi aperti che hanno il sapore metallico degli incubi, e finisce per ritrovarsi sempre nello stesso luogo, coincidenza di principio e fine, illusorio spiraglio di libertà, replica odiosa eppure irresistibile della quotidiana prigionia dell’esistere.
Sradicato, reso irriconoscibile, il viaggio si esaurisce nella sua meta, si fa approdo, spiaggia dinanzi alla quale un naufragio ha termine e un altro, ben più terribile del primo, comincia; nel ribaltamento, magistrale e sorprendente, del suo significato letterario e del suo fine narrativo, eventi prendono forma e nel medesimo tempo si consumano, e anni trascorrono implacabili in un’immobilità vischiosa, nel puzzo di chiuso di un oggi onnipresente e ossessivo, ingombrante e malato come una coazione a ripetere. A raccontare tutto questo, a percorrere i tortuosi sentieri di una volontà meschina e di un’intelligenza pallida, è Georges Simenon nel raffinatissimo romanzo psicologico Il clan dei Mahé, il cui protagonista (un medico sposato a una donna che non ama, padre di due figli nei cui confronti prova solo una specie di vuota indifferenza), in vacanza sull’isola di Porquerolles con i familiari, dapprima affronta un malessere che sembra non aver nulla a che fare con la sua vita non certo felice e che pure, in qualche misura, ne amplifica le numerose zone d’ombra – la località poco felice, il caldo eccessivo, una sistemazione appena dignitosa, un’atmosfera generale quasi lugubre, lontanissima da ogni turistica spensieratezza, che ha legami profondi con un’infelicità radicata, essenziale, connaturata all’uomo Mahé, alle sue scelte, a un dolore sottile che sembra accompagnarlo da sempre, che ha i battiti del suo cuore e il ritmo del suo respiro – e poi, d’improvviso, a causa della morte per tisi di una donna che è chiamato a certificare, si salda con tutte le esperienze fatte fino a quel momento, con ogni passo compiuto, con i rimorsi, i silenzi, le parole inutilmente spese, e per la prima volta svela Mahé a se stesso colmandone l’anima d’orrore e disgusto.
Il labirintico intreccio di significati e simboli che il grande scrittore belga adotta come cifra stilistica del suo lavoro permette di dominare l’andamento del racconto e di comprenderne lo scopo: nella vacanza di Mahé, che (per l’appunto simbolicamente) altro non è se non la prosecuzione della sua vita di tutti i giorni lontano da casa, un drammatico accadimento bruscamente riporta il medico alla sua normale routine professionale; anche a Porquerolles, dunque, e proprio in ragione del fatto che l’isola non è un rifugio né la realizzazione di una fuga, il medico torna ad affondare nelle sabbie mobili della sua esistenza. La sola differenza con il passato, il remoto come il recente, è che ora Mahé ha piena consapevolezza della propria condizione, ed è in questo stato che egli incrocia, a casa della defunta, una delle sue tre figlie, la maggiore, che in un istante diventa il suo pensiero fisso. Sarà per lei, per rivederla, per assaporarla in una sorveglianza continua e clandestina, che Mahé tornerà a Porquerolles, “l’isola-non isola”, anno dopo anno; sarà immaginando questa giovane, fantasticandole addosso, che farà di quel posto mai amato la propria destinazione, una sorta di elettiva dimora. Finché questa sua follia amorosa non esploderà nella più sordida delle realizzazioni.
Ipnotica, seducente e terribile, la prosa di Simenon, ancorata a Mahé, palpita nei suoi tentennamenti, nell’abitudine alle menzogne rassicuranti (e nel cupo baratro di rancori che questo comportamento cela), nell’affollarsi di ricordi che come folate di vento scompigliano l’attimo presente per dissolversi l’istante successivo, nelle frasi timide, abbozzate (precipizi di sincerità, di nudità spirituale dai quali è buona norma tenersi distanti), e lascia il resto – in primo luogo Porquerolles, spesso evocata per contrasto con alter mete, memoria di serene parentesi d’ozio – sullo sfondo, a incombere come nebbia, come fumo, ad abbozzare il disegno di un orizzonte che muto assiste all’inconsolabile miseria di un uomo vivo.
Eccovi l’inizio del romanzo. La traduzione, per Adelphi, è di Laura Frausin Guarino. Buona lettura.
Aveva la fronte corrugata, le labbra increspate, e forse, come un ragazzino concentrato sui libri, la punta della lingua fuori… Spiava Gène con aria sorniona sforzandosi di imitarne il più esattamente possibile ogni gesto.