Recensione de “Il senso di Smilla per la neve” di Peter Høeg
Nascere in una storia e sopravviverle. Essere il centro di un racconto ed esistere al di là di esso. Far parte di una serie di eventi e nello stesso tempo trascenderli, procedere oltre, perdurare nel tempo. Un nobile destino letterario (o se si vuole una preziosa forma d’eternità) toccato a un pugno di indimenticabili personaggi, magistrali creazioni dei grandi romanzieri d’ogni tempo:
eroi tragici e oscuri come il dostoevskijano Raskol’nikov (l’assassino di Delitto e castigo), fiere figure femminili come Tess (protagonista dell’omonimo romanzo di Thomas Hardy), Anna Karenina, o la contessa Olenska disegnata da Edith Wharton nello splendido L’età dell’innocenza, simboli delle grandezze e delle miserie di ogni tempo e ogni luogo come il Dorian Gray di Oscar Wilde, e ancora ombre delle nostre più profonde inquietudini, come lo Winston Smith di 1984 di George Orwell, o il pompiere-piromane Montag immaginato da Ray Bradbury in Fahrenheit 451, e l’elenco potrebbe continuare.
Ma se, a ben guardare, non stupisce individuare, nella magnifica architettura narrativa di romanzi immortali, caratteri che abbiano la grandezza, il respiro e la profondità delle vicende narrate, che sappiano portare sulle spalle il peso dei dilemmi e delle riflessioni (sociali, politiche, etiche, religiose) che incarnano, può accadere di incontrare, tra le pagine di opere senza dubbio piacevoli, riuscite, e tuttavia limitate quanto a valore intrinseco, protagonisti in grado di brillare di luce propria, talmente forti e affascinanti da riassumere in sé l’intero impianto della narrazione e decidere della sua qualità. Così è, per esempio, per Smilla Jaspersen, l’ombrosa eroina de Il senso di Smilla per la neve, atipico e coinvolgente thriller dello scrittore danese Peter Høeg che al suo apparire, nell’ormai lontano 1992, venne salutato come il caso editoriale dell’anno.
Smilla (che fin dall’indovinato titolo del romanzo di Høeg calamita l’attenzione del lettore), inuit groenlandese per parte di madre (prematuramente perduta) e danese per parte di padre, vive a Copenhagen come un animale in forzata cattività. La sua marginalità sociale, rivendicata e difesa in ogni occasione, è espressione non tanto di un personale disordine quanto di un insopprimibile bisogno di indipendenza; Smilla vive soltanto alle sue condizioni, e a quelle stesse condizioni ama (non a caso è sola), si rapporta con gli altri, sceglie a chi dispensare la propria considerazione e il proprio affetto. Nata dal ghiaccio, del ghiaccio ha la lucente trasparenza, la durezza e l’imprevedibilità; nasconde le sue numerose fragilità in un’ostinata volontà di ribellione alle regole, a tutto ciò che il corpo sociale raccomanda e apprezza, ed è nella neve, nel suo elemento, e nelle tracce che gli uomini vi lasciano che lei legge (come gli psicologi nella gestualità, negli sguardi e nelle parole) i loro cuori, penetra nelle loro anime.
Così, quando la neve sembra rubricare la tragica morte del piccolo Esajas, figlio della vicina di casa di Smilla, vedova con problemi di alcolismo, come un incidente, la giovane e caparbia groenlandese, sconvolta da quel terribile avvenimento, interroga le impronte e giunge a una conclusione diametralmente opposta a quella risultante dalla superficiale indagine fatta dalla polizia: non di una fatalità si è trattato, non di un’accidentale caduta dal tetto di un palazzo ma di un omicidio, perché Esajas, quando è scivolato, stava disperatamente cercando di sfuggire a qualcuno, qualcuno intenzionato a fargli del male. La scoperta è per Smilla un’assunzione di responsabilità, la impegna come una promessa, e a essa, alla promessa di rendere giustizia alla memoria del suo piccolo amico e al dolore di sua madre, ella giura fedeltà, impegnandosi in una caccia al colpevole che la condurrà alla scoperta di una verità sconvolgente.
Non serve aggiungere altro a una trama notissima, che l’autore dipana con buon ritmo, sfoggiando una prosa ricca, suggestiva ed emotivamente intensa, di particolare incisività nelle descrizioni d’ambiente e, non ultimo, diretta ed efficace nei dialoghi diretti. Al di là di questi indubbi meriti, tuttavia, Il senso di Smilla per la neve resta semplicemente un buon romanzo, nulla di più, anche se, una volta conclusa la lettura, è impossibile non provare una punta di nostalgia per Smilla, e pensare, credere, sperare, augurarsi di poterla incontrare ancora, caparbia, disillusa, sofferente, coraggiosa, viva. E autentica.
Eccovi l’inizio del romanzo. La traduzione, per Mondadori, è di Bruno Berni. Buona lettura e buone vacanze a tutti. Starò via anche io qualche giorno. Ci rivedremo nella seconda metà di agosto.
C’è un freddo straordinario, 18 gradi Celsius sotto zero, e nevica, e nella lingua che non è più la mia la neve è qanik, grossi cristalli quasi senza peso che cadono in grande quantità e coprono la terra con uno strato di bianco gelo polverizzato.
ciao Paolo buone ferie.
Sono rientrato e forse leggerò l’arretrato.
Molto lunga, ma interessante introduzione a questo tuo commento di SMILLA.
bye bye
A distanza di quindici anni mi è rimasto sempre nel cuore questo romanzo molto delicato e candido proprio come la neve.
Io ho trovato davvero felice il personaggio di Smilla. Grazie del tuo commento.
Un caro saluto
Grazie a te ! Buona giornata!