Recensione di “Lieto fine” di Edward St Aubyn
“Bisogna ‘celebrare la vita’: ricchi premi e cotillon! Tutte quelle chiacchiere del tipo: ha lottato fino all’ultimo, ma io so quanto gli è costato… Insomma, raccontare il percorso di un’esistenza e metterlo in prospettiva. Bada bene, non dico che non sia commovente. In questi ultimi giorni ho notato un effetto quasi sinfonico. E orrore in quantità industriali, naturalmente.
Nei miei giri quotidiani da un letto d’ospedale a una commemorazione e ritorno, mi vengono spesso in mente quelle navi cisterna che andavano a sfracellarsi su una scogliera una settimana sì e una no, e gli stormi di uccelli moribondi arenati sulle spiagge, con le ali incollate una all’altra e gli occhi gialli che sbattono, frastornati”. Come un naufrago esausto, affoga, nel narcisismo declamatorio di un vecchio aristocratico spietato e nostalgico, ogni illusione d’esistenza, ogni anelito alla dignità del vivere, ogni richiamo al rispetto di sé, fondamento del rispetto per l’altro da sé, e quel che resta, nella simbologia trasparente della morte, è una teoria di miserie morali, un cratere d’abiezioni spalancato dinanzi al palazzo di Creso.
Lungo fantastiche geometrie d’intuizioni commerciali, all’ombra di vertiginosi colpi di mano, nella lealtà polverosa e severa allo stile, all’etichetta, all’educazione, a tutto quanto serva ad assicurare unicità, originalità e soprattutto distinzione, colossali fortune si accumulano moltiplicandosi quasi per magia, o per generazione spontanea, poi svanendo d’improvviso in buchi neri d’ingiustizia, o di miopia, o di calcolata malvagità, di nuovo riconsolidandosi nell’interesse a lunga scadenza messo a cassa da antenati previdenti, e in questo loro fluido, incessante mutare disegnano i destini di generazioni , e partoriscono uomini e donne soli, fragili anime di cristallo che corrono in orbite eccentriche lungo la gibbosa circonferenza di una genealogia di mostri.
Giunto all’ultimo libro della sua splendida e dolorosissima saga familiare (I Melrose, già recensito in questo blog), Edward St Aubyn, nei panni del tormentato Patrick Melrose, chiude i conti con il proprio tragico passato (le violenze di ogni tipo, non ultima quella sessuale, subite bambino dal padre sadico, l’assenza intollerabile della madre, alcolizzata e allo stesso tempo terrorizzata e oscuramente attratta dalla cupa malvagità del marito) raccontando il funerale della madre Eleanor, spentasi dopo anni d’agonia nel corso dei quali, spinta da una sorta di furibonda febbre universalistico-umanitaria, ha dilapidato il proprio patrimonio dapprima finanziando ogni sorta di progetto a favore dei più deboli e in ultimo rovesciando la propria torrenziale generosità sul peggiore dei candidati possibili: l’improbabile sciamano di una “fondazione transpersonale” dedita all’autentica scoperta del sé (“Negli ultimi giorni della sua vita Eleanor era stata costretta a immergersi in uno spietato corso accelerato di autocoscienza, armata solo di uno spirito animale in una mano e di un sonaglio nell’altra. Si era dovuta confrontare con la pratica più difficile di tutte: niente parole o movimenti, niente sesso, niente droga, niente viaggi, niente soldi da spendere, quasi niente cibo. Solo la solitudine, vissuta in silenziosa contemplazione dei propri pensieri. Sempre che contemplazione fosse il termine giusto. Forse in realtà aveva sentito che erano i suoi pensieri a contemplare lei, come predatori affamati”).
La morte, resa se possibile ancora più definitiva dalla scelta della cremazione, il lutto da celebrare e il ricordo di chi non c’è più da onorare che chiamano a raccolta amici, parenti e rappresentanti scelti dell’esercito di beneficati dalla deforme munificenza di Eleanor, nella prosa scintillante, beffarda, raffinata e scandalosamente sofferente di St Aubyn si fanno densa materia narrativa di un fiammeggiante j’accuse, punti cardinali di un ritratto sociale al vetriolo. Di fronte a quel che resta di un mondo in disfacimento, tra memorie ormai quasi disincarnate di fasti talmente preziosi e irrinunciabili da trasformare in festa, in occasione mondana, qualsiasi avvenimento, funerali compresi (a rendere indimenticabili i quali provvedeva il blasone dei partecipanti, l’incorrotto sangue blu che impetuoso scorreva nelle vene di ogni singolo testimone), nell’urlare d’Erinni della pazzia continuamente sfiorata da Patrick, della sua vita squassata dai traumi (proprio come un corpo lo è dalla febbre altissima, anticamera del delirio), dei suoi bisogni urgenti e contraddittori, della sua sete d’amore tragicamente insoddisfatta e del suo desiderio d’amare terrorizzato e scalpitante, si compie (per una volta felicemente) la parabola di un essere umano perduto e ritrovato, si conclude la devastante odissea di una vita strappata a se stessa e a sé restituita.
Come nella precedente quadrilogia, St Aubyn si mette a nudo con una sincerità che lascia sbalorditi e commossi; trascina il lettore negli abissi più cupi del cuore umano, poi, con angelica leggerezza, con compassione autentica, lo conduce nella quieta regione degli antipodi, dove ogni cosa sembra avere un senso, perfino il male patito e la capacità di comprenderlo, disarmandolo: “Forse, nella sua nuova realtà libera dai genitori, sarebbe riuscito a ridurre i condizionamenti che aveva subito a semplici dati di fatto, senza interessarsi ancora alla loro genealogia; non perché la prospettiva storica fosse priva di valore, ma perché aveva ormai rinunciato a coltivarla. Altri avrebbero potuto approdare a quello stesso tipo di tregua prima che i loro genitori morissero, ma suo padre e sua madre erano stati ostacoli così giganteschi che aveva dovuto liberarsene nel senso più letterale del termine prima di poter immaginare che la sua personalità diventasse un filtro perfettamente trasparente, come aveva sempre desiderato. L’idea di un’esistenza spontanea gli era sempre parsa a dir poco stravagante. Tutto era condizionato da quanto accaduto in precedenza; perfino il suo fanatico desiderio di un certo margine di libertà era condizionato dalla drastica assenza di libertà dei suoi primi anni di vita. Forse era possibile solo una sorta di libertà imbastardita: l’accettazione dell’inevitabile inanellarsi di cause ed effetti garantiva se non altro la libertà da ogni illusione”.
Eccovi l’inizio del romanzo che, va da sé, va letto dopo la splendida tetralogia I Melrose. La traduzione, per Neri Pozza, è di Luca Briasco. Buona lettura.
«Sorpreso di vedermi?» disse Nicholas Pratt, puntando il suo bastone da passeggio sulla moquette del forno crematorio e fissando Patrick con una vaga espressione di sfida: un’abitudine che non aveva più ragion d’essere ma che era troppo tardi per modificare. «Ormai non mi lascio più sfuggire nessuna commemorazione. Alla mia età non si può fare altrimenti. Non ha senso restarsene seduti a casa a ridere dei giornalisti alle prime armi e dei loro errori puerili nei necrologi, o cedere al piacere vagamente monotono che deriva dal contare quanti coetanei muoiano ogni giorni. No!».
La tua travolgente maniera di commentare certi romanzi e in particolare modo questo, mi fanno fermare l’occhio per ritornare su righe lette troppo velocemente.
Bravo hai trasformato la mia fretta di leggere in modo troppo superficiale in attenzione quasi maniacale.
ciao alla prossima
Ciao Nino, grazie!