Recensione de “Il tamburo di latta” di Günter Grass
Nano per scelta (perché la statura significa età adulta, e l’età adulta implica responsabilità, e la responsabilità è sempre e inevitabilmente colpa), Oskar Matzerath, protagonista de Il tamburo di latta, folgorante romanzo d’esordio dello scrittore tedesco Günter Grass (premio Nobel per la letteratura nel 1999), è la coscienza inquieta di un Paese intero, lo specchio della sua follia, della sua deriva, del suo naufragio, il simbolo della sua discesa agli inferi.
Nano per scelta, Oskar Matzerath è allo stesso tempo anche l’iconica rappresentazione di una sconfitta, di una ribellione abortita, di un’impossibile redenzione, di una diversità macroscopica, abnorme eppure non essenziale, e che in ultima analisi si rivela come una forma di omologazione tra le tante.
I suoi trent’anni di vita, narrati a ritroso in pagine di fiammeggiante iperrealismo, in un continuo mutare di ritmo narrativo, nel respiro possente di uno stile ricchissimo, nel tumultuare di una prosa barocca, satura di dettagli descrittivi, labirintica nella costruzione dei caratteri e nell’esplorazione delle psicologie, ferocemente grottesca nel racconto delle tragedie di popoli interi e singole anime perdute e ostinatamente distante da ogni possibile consolazione, sono insieme testimonianza e confessione: spettatore neutrale dell’atroce notte nazista, il piccolo Oskar non si oppone al sanguinario delirio di onnipotenza hitleriano se non nella misura in cui le adunate, i riti di massa e le persecuzioni ai danni delle minoranze a più riprese organizzate dal regime sono d’intralcio ai suoi disegni.
Armato soltanto di un tamburo di latta (ricevuto in regalo al compimento del terzo anno di età in mantenimento di una promessa fattagli dalla madre al momento della nascita) su cui riproduce, suonando, ogni evento vissuto, ogni stato d’animo, ogni desiderio, ogni fallimento, il nano Matzerath, lo gnomo Matzerath, l’indefinibile “creatura” di nome Matzerath, il satanico Matzerath, venuto al mondo privo d’innocenza, carico di disgusto, capace quasi soltanto d’odio (o di forme d’amore monche, mostruose, paranoiche, ossessive) e con il solo, distruttivo e perverso dono di una voce talmente acuta da riuscire a mandare in frantumi qualsiasi genere di vetro in un raggio di centinaia di metri, tesse paziente la sua tela di ragno di inganni, costruisce, indifferente a tutto, la sua sordida cittadella fortificata di interessi personali.
Adulto e bambino a piacimento, Oskar rimane (per quanto glielo concede il suo animo, segnato in egual misura da meschinità e da un delirio d’onnipotenza che lo porterà a identificarsi con Gesù Cristo e a convincersi di essere in qualche modo il continuatore della sua opera) legato alla madre, si fa complice dei suoi ripetuti tradimenti coniugali, e quando lei, scopertasi incinta dell’amante, decide di darsi la morte nutrendosi soltanto di pesce, egli si vendica di coloro che più disprezza al mondo: dapprima l’affascinante e imbelle Jan Bronski, amore clandestino della mamma e suo probabile padre, che viene fatto prigioniero e poi fucilato dai nazisti nel corso dell’assedio all’edificio delle poste polacche (dove Oskar si trovava, proprio in compagnia di Jan, alla ricerca di qualcuno che potesse rimettere in sesto il suo tamburo, malridotto dall’uso eccessivo), poi il cuoco provetto (e convinto nazista) Alfred Matzerath, ufficialmente il padre del nano (e poi genitore anche del suo fratellastro – o forse di suo figlio – Kurt, concepito con Maria, la prima amante di Oskar, che l’uomo dopo aver conquistato decide di sposare), che, a un passo dalla capitolazione della Germania, viene ucciso da un soldato russo mentre cerca di far scomparire, ingoiandola, la spilla del partito.
Nel racconto doloroso e volutamente semiserio delle peripezie di Oskar Matzerath, nella rappresentazione degli episodi chiave della sua esistenza (su tutti, l’incontro con il suo mentore e maestro Bebra, un altro nano per scelta), nella teoria di miserie e pazzie di cui è attore principale e che Grass affresca con la sua scrittura vibrante, eccessiva, multiforme e misteriosamente inafferrabile nella sua incisività, prende vita un romanzo-apologo, un romanzo-denuncia, un romanzo atrocemente reale e bizzarramente fantastico, dove l’incredibile e l’assurdo altro non significano se non l’insopprimibile bisogno di lasciare, anche solo per un momento, anche soltanto con l’immaginazione, una realtà troppo corrotta, compromessa e ingiusta per poter essere accettata, sopportata, giustificata.
Nella voce “vetricida” del nano per scelta Oskar risuona dunque l’urlo di sdegno del suo creatore, un urlo modulato in forma di filastrocca, di fiaba, mascherato da pièce teatrale, strozzato in una spirale di domande retoriche e infine liberato in un torrente di immagini, nei colori saturi e nelle fantasmagorie indimenticabili e inquiete di una lanterna magica gettata in un abisso.
Eccovi l’inizio del romanzo. La traduzione, per Feltrinelli, è di Lia Secci (rivista nel 1991 da Vittoria Ruberl). Buona lettura.
Non lo nego: sono ricoverato in un manicomio; il mio infermiere mi osserva di continuo, quasi non mi toglie gli occhi di dosso perché nella porta c’è uno spioncino, e lo sguardo del mio infermiere non può penetrarmi poiché lui ha gli occhi bruni, mentre i miei sono celesti. Il mio infermiere non può dunque essermi nemico.
Interessante, é stato forse fatto anche un film ?
ciao Paolo alla prossima
Ciao Nino, sì, il film (che non ho visto) è del 1979.
Un abbraccio
l’ho visto e giudicato un film particolare; ciao alla prossima