Recensione de “Il trono di spade” di George R.R. Martin
È riduttivo definire Le cronache del Ghiaccio e del Fuoco, monumentale fatica letteraria di George R.R. Martin, una saga fantasy. Riduttivo ma non impreciso. Perché si tratta indubbiamente di un’avventura (o meglio, di una molteplicità, di un’infinità di avventure, di un inestricabile intreccio di storie diverse) il cui genere è senza dubbio ascrivibile al fantasy, ma anche di qualcosa di nuovo, originale e sorprendente rispetto alle regole e ai canoni che definiscono questo tipo di narrazione.
La prima e più vistosa particolarità della saga è la sua impressionante lunghezza, il respiro straordinariamente ampio (e a questo proposito, concedetemi un inciso di carattere personale: ho cominciato a leggere Martin cinque anni fa su suggerimento di un carissimo amico, ragazzo di ottima cultura e vaste letture; all’epoca la saga si componeva di sei libri, e l’amico in questione mi aveva avvisato che più o meno l’autore era giunto a metà del cammino. La cosa non mi spaventò, anzi. Avrei letto i primi sei libri, Martin nel frattempo ne avrebbe pubblicati altre due o tre, e nel tempo che avrei impiegato a leggere i nuovi lui avrebbe terminato il lavoro. Nel peggiore dei casi, pensavo, ci dividerà uno scarto temporale di un mese o due, sufficiente a leggere qualcosa d’altro senza dimenticarmi nulla di essenziale de Le cronache del Ghiaccio e del Fuoco. Sbagliavo, naturalmente. Terminai – per merito del talento narrativo di Martin e della sua inesauribile immaginazione creatrice – tutti i libri in brevissimo tempo e dovettero passare più di tre anni prima che un nuovo capitolo venisse dato alle stampe. Risultato: sono ancora fermo a metà saga, roso dalla curiosità, ma anche consapevole che ricominciare a leggerla significa farlo dall’inizio; la vicenda è troppo articolata e i personaggi coinvolti una moltitudine, ciascuno con un proprio ruolo, perché possa procedere nella lettura sulla base dei miei ricordi, tanto entusiasti quanto fatalmente frammentari).
La seconda caratteristica è la minuziosa ricostruzione d’ambiente, che Martin porta fin quasi alla perfezione dando vita a un vero e proprio mondo – non dissimile, anche se molto più ricco e dettagliato, da quello dell’Era Hyboriana inventato da Robert E. Howard, il creatore dell’invincibile avventuriero barbaro Conan – con una sua ben precisa geografia, nella quale sono presenti regni, confini presidiati e difesi da eserciti pronti a tutto, lande selvagge, ricchissime città splendenti d’orgoglio, massicce fortezze turrite, isole, golfi, arcipelaghi, baie, altopiani e infine, prima della desolazione senza fine della gelida foresta che si estende nel nord più profondo e inesplorato, un colossale muro di ghiaccio, la Barriera, custodito da un manipolo di uomini che hanno deciso di dedicare la propria vita all’assolvimento di questo compito, i Guardiani della notte.
Quel che più colpisce, però, è la totale assenza di qualsiasi elemento “fiabesco”. Non c’è magia nella saga di Martin, non ci sono stregoni né negromanti, né alcun altro cultore delle arti occulte (dimenticate, insomma, incantesimi e sortilegi, e perfino miracolose pozioni; il più delle volte, quel che viene bevuto o è vino oppure è un letale veleno di umanissima fattura), così come non c’è traccia di razze diverse da quella umana (eccezion fatta per i misteriosi Estranei che sembra vivano al di là della Barriera; minaccia incombente su tutti i popoli ma che l’autore, almeno fino al sesto libro, perfidamente utilizza con estrema parsimonia, limitando al minimo indispensabile descrizioni e incursioni); niente elfi, né nani, né creature di altra specie, e lo stesso vale per il regno animale (anche in questo caso, con due importanti eccezioni: i meta-lupi, che tuttavia a ben guardare sono identici ai lupi, solo più grandi, più aggressivi e probabilmente più intelligenti, e i draghi – solo tre per la verità – strumento di riscatto e di potere per uno dei personaggi più affascinanti della storia, Daenerys Targaryen, figlia del deposto re).
Ed eccoci giunti, ennesima sorpresa, alla trama vera e propria, semplicissima, perfino banale nella sua articolazione: il mondo inventato da Martin è retto da un re, che siede sul Trono di Spade. Il re è Robert Baratheon, che al termine di una guerra senza quartiere ha ucciso l’ultimo sovrano della dinastia Targaryen. Questo l’antefatto. La storia comincia da qui. La pace, garantita da re Robert, è minacciata. Nessuno sa bene quale sia il pericolo, ma è palpabile. A nord, oltre la Barriera, i silenziosi Estranei incombono, mentre a sud, a corte, c’è chi trama contro il sovrano, a partire dalla sua stessa consorte, la bellissima e malvagia Cersei, del nobile casato dei Lannister. Baratheon può contare sulla lealtà incondizionata di un altro nobile, Eddard Stark, signore di Grande Inverno, sposato a Lady Catelyn, del fiero casato dei Tully, ma la sua fedeltà, così come la sua spada, non può bastare; i complotti si moltiplicano, e più di una mano assassina è pronta a colpire. E una volta che il Trono di Spade sarà vacante, il caos non si potrà più arrestare, e la lotta per la successione divamperà ovunque…
Il primo capitolo della saga, Il Trono di Spade, è un avvincente, tumultuoso romanzo di cappa e spada ma ne oltrepassa di slancio i confini per complessità d’intreccio, per l’incalzante susseguirsi di colpi di scena, per la quantità e la qualità (psicologica e caratteriale) dei personaggi – solo per dir di alcuni dei maggiori, la numerosa prole di Eddard Stark, chiamata a un destino di gloria e di dolore, la famiglia di Cersei, spregevole in quasi tutti i suoi componenti eppure non priva di fascino, i Tully, con in testa ser Brynden, detto il “Pesce nero”, uomo di profonda intelligenza, tanto saggio quanto astuto, la già citata Daenerys, di soli tredici anni, “nata dalla tempesta”, e suo fratello Viserys, che arde dal desiderio di riconquistare il trono e per riuscirci è disposto a tutto – per il magistrale stile di scrittura e in special modo per la capacità dell’autore di non dare punti di riferimento, di non affezionarsi a nessuno dei suoi eroi, verso le cui fortune e sfortune ostenta totale noncuranza.
Le cronache del Ghiaccio e del Fuoco, che di recente sono diventate anche una serie televisiva di grande successo prodotta da HBO e da noi andata in onda su Sky (due stagioni fino a oggi), sono, per tutti coloro che amano la letteratura fantasy, un irresistibile canto di sirena, un viaggio bellissimo, un’indimenticabile emozione.
Prima di chiudere, desidero ringraziare il già citato amico (Riccardo Volpi) per avermi fatto conoscere Martin, dedicare quanto scritto a un altro amico, Giuseppe Lamanna, blogger di lungo corso (se siete interessati, lo trovate qui) e appassionato lettore delle Cronache, che tempo fa mi chiese di occuparmene in questo spazio, e scusarmi con tutti voi per aver trattato una saga senza averla letta per intero. A mia parziale discolpa, oltre a quel che ho già spiegato, posso solo aggiungere che non ho alcun motivo di ritenere che i nuovi libri siano (andamento della trama a parte) sostanzialmente diversi dagli altri. In ogni caso, se qualcuno di voi finirà di leggere la saga e vorrà dirmi come si conclude, avrà la mia eterna gratitudine.
Ora a voi l’incipit. Buona lettura.
Le tenebre stavano avanzando.
«Meglio rientrare». Gared osservò i boschi attorno a loro farsi più oscuri. «I bruti sono morti».
«Da quando hai paura dei morti?». C’era l’accenno di un sorriso sui lineamenti di ser Waymar Royce.
Gared non raccolse. Era un uomo in età, oltre i cinquanta, e di nobili ne aveva visti andare e venire molti. «Ciò che è morto resta morto» disse «e noi non dovremmo averci niente a che fare».
«Che prova abbiamo che sono davvero morti?» chiese Royce a bassa voce.
«Will li ha visti. Come prova, a me basta».
Will sapeva che prima o dopo l’avrebbero trascinato nella discussione. Aveva sperato che accadesse dopo, piuttosto che prima. «Mia madre diceva che i morti non parlano» s’intromise.
«Davvero, Will?» rispose Royce. «È la stessa cosa che mi diceva la mia balia. Mai credere a quello che si sente vicino alle tette di una donna. C’è sempre da imparare, perfino dai morti».
La foresta piena di ombre rimandò echi della voce di ser Waymar. Troppi echi, troppo forti e definiti.
«Ci aspetta una lunga cavalcata» insisté Gared. «Otto giorni, forse nove. E sta calando la notte».
«Cala ogni giorno, quasi sempre a quest’ora. Ser Waymar alzò uno sguardo privo d’interesse al cielo che imbruniva. «Qualche problema con il buio, Gared?».
Will vide le labbra di Gared stringersi e la rabbia repressa a stento invadere i suoi occhi, visibili sotto lo spesso cappuccio nero del mantello. Gared aveva passato quarant’anni nei Guardiani della notte, la maggior parte della sua vita di ragazzo, tutta la sua vita di uomo, e non era abituato a esser preso con leggerezza. Ma questa volta nel vecchio guerriero c’era qualcosa di più dell’orgoglio ferito. Una tensione nervosa che arrivava pericolosamente vicino alla paura.
Will la percepiva, la sentiva. Forse perché lui stesso aveva paura. Era di guarnigione sulla Barriera da quattro anni. La prima volta che l’avevano mandato sull’altro lato tutte le antiche, sinistre storie gli erano tornate alla mente come una valanga. Aveva sentito le viscere attorcigliarsi e il sangue andare in acqua. In seguito ne aveva riso. Era un veterano adesso, con centinaia di pattugliamenti alle spalle. Per lui, non c’erano più terrori in agguato nella sterminata estensione verde scuro che quelli del Sud chiamavano la Foresta stregata.