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L’erudito e lo stolto

Recensione di “Yoshe Kalb” di Israel J. Singer

Israel J. Singer, Yoshe Kalb, Adelphi
Israel J. Singer, Yoshe Kalb, Adelphi

Galizia, a cavallo tra XIX e XX secolo. Qui, in una terra che per i gentili è soltanto la provincia più settentrionale dell’Impero Austro Ungarico, un’area povera e contadina situata tra Polonia e Ucraina, e che il colorato, chiassoso, imperfetto, palpitante mondo dell’ebraismo chassidico popola di vita, tradizioni, magia ed esoterismo, carica di simbologia e misticismo, benedice e maledice nel nome di Dio e dei più santi tra i santi e benevolmente lascia prosperare all’ombra degli affari (leciti e illeciti) dei rabbini e delle comunità da loro guidate, i destini di un popolo vengono forgiati, e il suo futuro scritto.


Qui, dove ogni cosa che abbia valore è oggetto di studi interminabili, di preghiere e invocazioni ripetute fino allo sfinimento e di furibonde controversie dottrinali, gli appetiti terreni e la brama d’assoluto, come sposi riuniti sotto il baldacchino nuziale, annullano le rispettive differenze in una superiore unità, cancellano le contraddizioni nella comune aspirazione alla felicità e all’abbondanza.

Qui, nel microcosmo di un villaggio e di una corte (specchio fedele di una realtà più ampia e complessa ma nella sostanza sempre identica a se stessa), Israel J. Singer, con ogni probabilità la voce più limpida, sincera e ricca di quella brulicante realtà sociale, politica ed economica che la ferocia nazista cancellerà quasi del tutto, ambienta uno dei suoi romanzi più riusciti e ambiziosi, Yoshe Kalb, travolgente, beffarda e lucidamente tragica riflessione sulla perdita d’identità che è definitiva, irrimediabile rinuncia a sé di un singolo come di una moltitudine.

L’ebreo Singer rivendica con orgoglio la propria appartenenza a ciò che descrive, e in forza di questa comunione (dello spirito come della carne) egli racconta con una sorta di gioiosa sfrenatezza; i suoi personaggi, ritratti con affetto ma senza alcuna gratuita partigianeria, abbondano nella generosità e nei vizi, tracimano nei sentimenti nello stesso, scomposto modo in cui si abbandonano alle suppliche. Febbrile come l’ambiente che descrive, la prosa di Israel J. Singer lascia senza fiato; sfiora rispettosa il composto mormorio delle voci salmodianti di una sinagoga per poi esplodere nella grottesca confusione di un litigio tra mendicanti; riecheggia disordinata e volgare nelle contrattazioni di mercanti e uomini d’affari a una fiera e subito dopo si chiude nel silenzioso dolore di una moglie trascurata dal consorte o negli spasmi della volontà di un mistico, di continuo messa alla prova dalle tentazioni del mondo.

E in questa polifonia di voci, nella quale miracolosamente nulla stona, ma dove anzi l’ordine altro non è che coincidenza d’opposti – mirabili, in questo senso, le pagine che aprono il romanzo, dedicate alla presentazione dei rabbini di Nyesheve e Rackmanivke, radicalmente diversi l’uno all’altro in tutto, “grossolano, irsuto, massiccio” il primo, “magro come un giunco, la barba rada, nerissima, striata di grigio […] talmente lindo da essere quasi lustro” il secondo, i cui figli, poco più che ragazzi, stanno per sposarsi – l’autore fa emergere il protagonista del suo lavoro, l’enigmatico, umbratile, inafferabile Nahum, nel medesimo tempo essenza dellortodossia ebraica e sua malattia mortale. Rampollo del rabbino di Rachmanivke, “fragile e slanciato come il padre, o meglio, come una fanciulla; nervoso e sensibile come la madre, da cui aveva ereditato la debole costituzione aristocratica […] sempre immerso nelle speculazioni mistiche, nei sogni della Qabbalah”, Nahum sposa senza amore Serele, la figlia ignorante e grossolana del rabbino di Nyesheve, ma si accende di passione (che inutilmente cerca di controllare) per la quarta moglie di quest’ultimo, la ribelle Malka, che per lui concepisce un’identica ossessione.

Il loro rapporto proibito, che si consuma nell’immediatezza di rochi sussurri e fugaci sguardi fino al momento in cui, in una notte di delirio collettivo, le fantasie e i desideri troppo a lungo combattuti trovano l’agognata soddisfazione, sconvolge a tal punto Nahum da costringerlo a lasciare la sua casa e, dimentico di se stesso, a vagare per il mondo come penitente. Giunto a Bialogura fasciato da vesti lacere, a tenergli compagnia solo il Libro dei Salmi, che le sue labbra recitano senza sosta, Nahum diventa, senza quasi rendersene conto, Yoshe Kalb, Yoshe “il tonto”, un buono a nulla allontanato anche dai più poveri e derelitti, e finisce per lavorare alle dipendenze dello scaccino della sinagoga del villaggio.

Ma qui un’altra disavventura lo attende; Zivyah, la figlia ritardata dello scaccino, si invaghisce di lui e, respinta, si consola con altri, rimanendo incinta. Yoshe, accusato di esserne il seduttore, rinuncia a difendersi e viene unito in matrimonio alla ragazza. Fuggito (la prima notte di nozze) ancora una volta, decide di far ritorno a Nyesheve e di rivendicare il suo nome e la sposa abbandonata, ma non appena viene riabbracciato dalla comunità, ecco che un altro rabbino, proveniente proprio da Bialogura, lo accusa di essere Yoshe, consorte di Zivyah. Chi è dunque davvero l’uomo ricomparso a Nyesheve a turbare un’intera corte e il suo rabbino ormai ultrasettantenne? Il giovane timido e ritroso misteriosamente scomparso quindici anni prima, oppure un impostore che ha bestemmiato Dio nel modo più sconcio, tradito i suoi comandamenti e contaminato i suoi fratelli?

Per stabilirlo si riunisce un consesso di settanta rabbini e si dà inizio a un processo, ma non sarà la luce della verità a premiare gli sforzi di quella dotta e pia assemblea. Perché a confrontarsi, nel dibattito, non sono una menzogna e il suo opposto, bensì due incontestabili realtà, che tuttavia non possono coesistere: Yoshe Kalb, infatti, è Nahum e non lo è; il suo peccato, la sua maledizione, ciò che lo ha condotto a spogliarsi della sua identità, a rinnegarla, è ciò che lo ha tramutato in Yoshe, ma una volta indossati questi panni, la paura di non riuscire a dominare i suoi istinti, in qualche modo risvegliati da Zivyah, la stessa che lo aveva tormentato a Nyesheve, lo induce a tornare Nahum. Orgoglio e scandalo della sua gente, Nahum/Yoshe, che a tutte le domande dirette risponde “Non lo so”, è, nelle parole di uno dei suoi giudici, il Santo di Lizhane, “un morto errante nel caos del mondo”, spettro e simbolo di una fede e di un popolo giunti sull’orlo dell’abisso, serrati nel disumano abbraccio della modernità arrembante, morsi dallinnominabile abominio della secolarizzazione, braccati da un odio secolare che di lì a poco divamperà in una perfetta logica di sterminio.

Eccovi l’incipit del romanzo, preceduto da una bella introduzione del fratello minore di Israel, Isaac, premio Nobel per la Letteratura nel 1978. La traduzione, per Adelphi, è di Bruno Fonzi. Buona lettura.

La grande corte hassidica di Nyesheve in Galizia era in fermento per i preparativi del matrimonio di Serele, la figlia del Rabbi. Rabbi Melech aveva molta fretta. In verità, aveva sempre fretta, poiché nonostante i suoi sessanta e passa anni e la sua pancia, sulla quale le frange rituali facevano la curva come un grembiule sul pancione di una donna incinta, nonostante l’età e la mole, il Rabbi era straordinariamente nervoso. I suoi occhi sporgenti, colore della birra, sembravano sempre sul punto di saltargli fuori dalle orbite per l’impazienza e la curiosità. Dal suo corpo enorme, dal folto della barba arruffata, dai cernecchi, dalla nuca grassa e pelosa irradiava una vitalità furibonda. Uomo rumoroso, eccitabile, con labbra carnose e sensuali che succhiavano senza posa un grosso sigaro, ora acceso ora spento, Rabbi Melech era noto per la sua risolutezza e la sua tenacia. Una volta che si era messo in testa una cosa, si agitava, gridava, minacciava, blandiva e si dava da fare finché non avesse raggiunto il suo scopo.

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