Recensione di “Se questo è un uomo” di Primo Levi
“Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenore di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli. Perciò questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di distruzione.
Esso non è stato scritto alla scopo di formulare nuovi capi d’accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano. A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager”.
Così Primo Levi nella prefazione al suo lavoro più noto e tragico, Se questo è un uomo, lucida cronaca di una prigionia, puntuale analisi di un sistematico processo di degradazione, logico, conseguente disvelamento di un’incrollabile metafisica dell’annientamento. Non un j’accuse, dunque, il suo, non un ennesimo capo d’imputazione da aggiungersi agli altri, piuttosto una testimonianza, il passo d’avvio di una comune riflessione, di una presa di coscienza generale; eppure, anche in una dimensione quasi sospesa, che certo non prende le distanze da quanto accaduto (e del resto, come potrebbe?) ma nemmeno guarda alla barbarie esclusivamente dal polveroso suolo su cui giace l’anima del condannato, né si arrende alla umiliazione definitiva dei vinti, al loro sguardo riempito soltanto del nero pece degli stivali degli aguzzini, l’autore non può non chiedersi, e chiedere, se abbia diritto a essere chiamato uomo chi venga costretto a lavorare nel fango senza mai conoscere pace, e debba lottare per mezzo pane, e morire per un sì o per un no. E se possano ancora rivendicare attributo d’umanità donne senza capelli né nome, senza più forza di ricordare, con gli occhi vuoti e il grembo freddo. Donne tramutate in rane d’inverno.
Cos’è dunque quella “fortuna” di cui Levi parla? Cosa intende dire il prigioniero (häftling) numero 174.517 del complesso concentrazionario di Auschwitz scegliendo quel termine così stonato e fuori luogo rispetto all’infinita teoria di devastazione dinanzi alla quale si affaccia? Cosa significa quell’increspatura, quell’imperfezione troppo umana che interrompe la trama implacabile dello sterminio? È la contraddizione, l’imprevedibilità, il fiorire testardo della vita in una sterile terra di morte; è l’emergere di una primordialità che si ostina a essere, a perseverare, quando tutto il resto scompare. Quando non esistono più parole per descrivere l’annullamento di tutto ciò che è umano nell’uomo – “per la prima volta”, scrive Levi, “ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo” – allora, nelle vesti grottesche di una fortuna che altro non è se non sopravvivenza, gioco del caso, colpo di biliardo di circostanze favorevoli, ecco che ogni abiezione, che altre voci denunceranno, che avrà la sua esecrazione e la sua condanna capitale, e che come un Cristo malvagio, o una demoniaca araba fenice, tornerà dalla morte, risorgerà dalle ceneri e di nuovo si alimenterà dell’inestinguibile desiderio, che è dell’uomo e solo dell’uomo, di prevalere sui suoi simili, si fa martellante interrogativo, domanda che senza sosta si affaccia alla coscienza, alle labbra, e chiede, in luogo di una riposta che non potrà mai avere, attenzione, dedizione, fedeltà, perseveranza: come è possibile che sia successo?
“La baracca di legno, stipata di umanità dolente, è piena di parole, di ricordi e di un altro dolore. «Heimweh» si chiama in tedesco questo dolore; è una bella parola, vuol dire «dolore della casa». Sappiamo donde veniamo […]. Ma dove andiamo non sappiamo […]. Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi, fatti schiavi abbiamo marciato cento volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell’anima prima che dalla morte anonima. Noi non ritorneremo”.
Eco eterna di quella domanda, Se questo è un uomo oppone l’uomo a se stesso, ne cerca le tracce nel suo disperdersi, nella cenere del suo corpo come nelle orrende piaghe della sua anima ricondotta a strattoni fino allo stadio elementare della ferinità, e amorevolmente le protegge, sordo alla fatica, al sacrificio, agli spettrali sussurri del fallimento: “Forse mi ha aiutato anche il mio interesse, mai venuto meno, per l’animo umano, e la volontà non soltanto di sopravvivere (che era comune a molti), ma di sopravvivere allo scopo preciso di raccontare le cose a cui avevamo assistito e che avevamo sopportate. E forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale”.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943. Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza, e una decisa propensione, favorita dal regime di segregazione a cui da quattro anni le leggi razziali mi avevano ridotto, a vivere in un mio mondo scarsamente reale, popolato da civili fantasmi cartesiani, da sincere amicizie maschili e da amicizie femminili esangui. Coltivavo un moderato e astratto senso di ribellione.