Recensione de “I ragazzi venuti dal Brasile” di Ira Levin
Da una parte la storia vera e propria, il passato, quel che è accaduto e per questo ci appartiene; dall’altra la storia possibile (o probabile), in una parola tutto ciò che sarebbe potuto succedere se soltanto determinate circostanze si fossero svolte in modo differente da come si sono effettivamente verificate.
Considerati come materiale narrativo, come scenari alternativi dentro cui far vivere una vicenda, il certo e l’ipotetico hanno identico fascino, pari potenzialità, medesima ricchezza contenutistica. La loro differenza, squisitamente formale, non riflette altro che la personale preferenza di chi sceglie l’uno in luogo dell’altro; tuttavia a questi orizzonti è possibile guardare anche da un’altra prospettiva, valorizzandone non più ciò che li distingue ma, all’opposto, quel che li avvicina, quel che può renderli terreno comune di un racconto. E proprio questo fa lo scrittore statunitense Ira Levin nel suo celebre I ragazzi venuti dal Brasile, romanzo tanto fascinoso quanto inquietante che esplora il delirio nazista da un punto di vista davvero inedito. Il contesto da cui Levin prende le mosse è indiscutibilmente storico: il secondo conflitto mondiale è finito da tempo e l’esercito hitleriano è stato sconfitto. I più alti ufficiali nazisti sfuggiti al processo e alle condanne inflitte a Norimberga hanno trovato rifugio in Sudamerica e in alcuni di loro (uno in particolare, il famigerato dottor Josef Mengele) è germogliata un’idea insieme geniale e folle: non cercare di ricostruire, in una situazione storica radicalmente nuova rispetto a quella che vide fiorire la dittatura hitleriana, il movimento nazionalsocialista e riprendere il potere, bensì, replicare esattamente le condizioni che portarono Adolf Hitler al governo della Germania utilizzando, per riuscirci, lo stesso Adolf Hitler, o meglio un suo clone, creato dal dottor Mengele grazie a un lembo di pelle e a un campione di sangue del führer prelevati poco prima della sua morte. Grazie al materiale organico in suo possesso, Mengele, rifugiatosi in Sudamerica, ha fatto nascere 94 bambini il cui codice genetico è la copia di quello di Adolf Hitler; in seguito, ciascuno di loro è stato dato in adozione a famiglie in tutto e per tutto simili a quelle in cui crebbe il tiranno. Ed è qui, al crocevia tra scienza, influsso dell’ambiente e calcolo delle probabilità (su 94 bambini cresciuti quanto più possibile nello stesso modo in cui venne allevato Hitler, è statisticamente possibile che irrompano nella storia un certo numero di Adolf Hitler e che tra essi uno finisca per diventare davvero, realizzando così una sorta di terrificante continuità storica, quell’Adolf Hitler suicidatosi a Berlino nel 1945) che l’opera di Levin prende le mosse.
Nel bel mezzo della realtà storica, dunque, il romanzo guarda al possibile (alle conseguenze che produrrebbe il disegno di Mengele se avesse successo) per poi fare un altro passo in avanti rimodellando il prossimo futuro su un passato in gran parte già scritto – “Sono in gioco il destino e la speranza della razza ariana”, rivela Mengele al gruppo di nazisti che dovranno proseguire il piano da lui avviato uccidendo i padri di tutti i bambini adottati così da replicare la perdita che subì Hitler in giovanissima età -; su questa complessa scacchiera, costruita con indiscutibile abilità, l’autore dà vita a un intreccio ricco di tensione (a contrastare Mengele è un suo acerrimo nemico, il “cacciatore di nazisti” Yakov Liebermann, venuto per puro caso a conoscenza del progetto), che alterna glaciali atmosfere da duello al torbido respiro del giallo. Lungo i binari di una scrittura semplice e forte, che non concede tregua al lettore, l’ingegnoso meccanismo narrativo concepito da Ira Levin affronta senza timore temi di straordinaria importanza (l’eredità, scomoda e inevitabile, dell’incubo hitleriano, il progresso medico-scientifico, il cui sviluppo potenzialmente illimitato scatena dilemmi etici, l’importanza della memoria, l’incerto confine che divide il legittimo diritto alla difesa della vittima di un’aggressione dal suo desiderio di rivalsa); alle questioni che squaderna l’autore non offre risposte certe, il suo punto di vista, tuttavia, emerge limpido tra le righe di un’opera che, pur non tradendo mai la propria vocazione di lettura d’evasione, non si sottrae al dovere di una presa di posizione morale: “Da principio desideravo soltanto vendetta”, confessa Liebermann a una conferenza, “vendetta per la morte dei miei genitori e delle mie sorelle, vendetta per gli anni che avevo passato nei campi di concentramento […] vendetta per tutte le morti, per gli anni di ognuno. Perché ero stato risparmiato, se non per ottenere vendetta? […]. Ma il guaio, con la vendetta […] è che, primo, non si riesce a ottenerla sul serio […] e, secondo, anche se ci si riuscisse, servirebbe poi a molto? […]. No. Così, ora voglio qualcosa di meglio della vendetta, e qualcosa forse altrettanto difficile da ottenere […]. Voglio il ricordo […]. Il ricordo. È difficile ottenerlo, perché la vita continua; ogni anno ci sono nuovi orrori: un Vietnam, attività terroristiche nel Medio Oriente e in Irlanda, assassinii […] e ogni anno […] l’orrore degli orrori, l’Olocausto, si allontana sempre più, si fa un tantino meno orribile”.
In perfetto equilibrio tra “verità” e invenzione, I ragazzi venuti dal Brasile è un piccolo gioiello, un romanzo che si legge d’un fiato, e che, nella coinvolgente leggerezza dell’avventura e nell’ombra cupa di un tragico destino sempre potenzialmente incombente, affascina, atterrisce, conquista.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Mondadori, è di Adriana Dell’Orto. Buona lettura.
Nelle prime ore di una sera del settembre 1974 un piccolo bimotore nero e argenteo planò su una pista secondaria dell’aeroporto Congonhas di São Paulo e, rallentando, rullò verso un hangar dove era in attesa un’automobile. Tre uomini, l’uno dei quali vestito di bianco, si trasferirono dall’aereo all’auto, che dal Congonhas s’avviò in direzione dei bianchi grattacieli del centro di São Paulo. Una ventina di minuti più tardi, l’automobile s’arrestò sull’Avenida Ipiranga, di fronte al Sakai, un ristorante giapponese che pareva un tempio.