Recensione di “La ballerina del Gai-Moulin” di Georges Simenon
Un’atmosfera greve, densa d’infelicità e povertà, satura di sogni infranti. Il respiro corto di chi è costretto a inseguire la vita, a implorarne la misericordia, gli occhi gonfi di pianto e il cuore in tumulto di un innamorato respinto; l’ansia di riscatto consumata in un’attesa che sembra non finire mai, in un domani architettato come il più perfetto dei piani ma condannato a non vedere la luce. Ovunque un destino condiviso di sconfitta, il sapore metallico del fallimento, l’odore dolciastro dell’umiliazione.
E nel buio, raggomitolata, la morte; superflua quasi, nel suo orrore, in un teatro di rovine, nella sofferenza sottile come polvere, silenziosa come neve, che instancabile si posa su uomini e cose. È senza dubbio un giallo atipico La ballerina del Gai-Moulin di Georges Simenon, in apparenza una delle numerossisime inchieste del commissario Maigret e nulla più, un romanzo sorprendente, spiazzante, nel quale le regole del genere, pur senza venire stravolte, perdono d’importanza e di significato e lasciano il posto a un umanesimo consunto, estenuato, a ritratti, caratteri e profili che illuminano abissi di dolore.
Non a caso in questo lavoro l’indagine e la soluzione del caso corrono sottopelle, fanno da controcanto alla fragile odissea di due giovani, al loro tragico inciampare in quel che più desiderano: “Chabot portava un abito fatto in serie, e le sue scarpe erano state risuolate un paio di volte. Il vestito del suo amico era di stoffa migliore, ma gli stava male. D’altra parte Delfosse aveva le spalle strette, il petto incavato, la figura incerta dell’adolescente cresciuto troppo in fretta”. Ragazzi con una gran voglia di spassarsela, giovani impazienti di vivere alla grande, di lasciarsi alle spalle una volta per sempre l’insinuante sentore di miseria che, seppur in modi diversi, li perseguita dalla nascita, uomini appena accennati che certo non sono modelli d’onestà ma neppure criminali senza scrupoli, persone, null’altro che persone, smarrite più che perdute, Chabot e Delfosse decidono di svuotare la cassa di un night di Liegi che sono soliti frequentare. Una notte, invece di andare a casa, attendono che il locale chiuda i battenti e vi si introducono per fare il colpo, ma quel che scoprono li lascia sgomenti e in preda al terrore: c’è un corpo riverso a terra, un cadavere. E quello stesso cadavere, il mattino successivo, viene ritrovato nell’orto botanico della città, chiuso in un baule di vimini. Che cosa è successo davvero? Chi ha ucciso quell’uomo? E perché non è stato ritrovato al night? È un caso, o soltanto una sfortunatissima coincidenza, che quell’uomo si trovasse nel locale soltanto qualche ora prima, un avventore tra gli altri che Delfosse e Chabot non avevano mancato di notare? E a quei due malcapitati cosa potrebbe accadere se la polizia li trovasse? Potrebbero essere incriminati? Accusati di un delitto che non hanno commesso?
Attraverso i tormenti della coppia di giovani, nella luce fioca dei loro dubbi, dei tentennamenti, delle risoluzioni prese e un istante dopo abbandonate, lungo il binario morto di confronti aspri che non conducono da nessuna parte, Simenon costruisce un giallo complesso e appassionante, denso di colpi di scena; la sua architettura narrativa è un labirinto di false piste, di verità ostinatamente taciute, di inganni congegnati con diabolica astuzia, un gioco di specchi, una trappola per topi.
L’infittirsi della trama, tuttavia (che vede Maigret dapprima vestire i panni dell’accusato e in un secondo momento fingersi addirittura morto), non è semplicemente un riuscito espediente letterario, non serve per incantare il lettore e tenerlo avvinto dalla prima all’ultima pagina (o meglio, questo non è che un effetto secondario della scelta), bensì è utile a far risaltare l’umanità ferita di tutti gli attori in gioco; nei panni di un Mangiafuoco meditabondo e commosso, lo scrittore belga espone alla cruda luce del sole l’interiorità dilaniata dei suoi personaggi; i già citati Chabot e Delfosse, cui perfino i sogni danno le vertigini; i loro genitori, che in ogni modo si sforzano di comprenderli, giustificarne gli errori, trovare la forza per non smettere di amarli; l’uomo assassinato, personaggio ambiguo, misterioso, la cui vita Maigret sarà costretto a svelare in tutti i dettagli, compresi i più sordidi, per risolvere l’enigma legato al suo assassinio; le altre figure che ruotano intorno al locale notturno (Adèle, Victor, Gennaro), tutte in qualche misura coinvolte nelle indagini, nessuna realmente innocente ma forse neppure del tutto colpevole.
Così, quel che resta dell’inchiesta di Maigret a caso risolto, al di là della scoperta dell’omicida, è un aspro deserto di solitudini e illusioni; un naufragio di speranze che non ha nulla a che vedere con la giustizia degli uomini e la sua puntuale applicazione. È amara, dunque, la verità che emerge al termine de La ballerina del Gai-Moulin, una verità imperfetta, che non salva, e nonostante ciò la sola che sia concessa agli uomini. A Maigret come agli assassini che persegue.
Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Adelphi, è di P.N. Giotti. Buona lettura.
«Chi è?». «Non so! È la prima volta che viene» disse Adèle soffiando fuori il fumo della sigaretta. Pigramente cambiò posizione alle gambe, si aggiustò i capelli sulle tempie con qualche colpetto e contemplò la propria immagine in uno degli specchi che tappezzavano la sala per assicurarsi che il trucco fosse in ordine. Era seduta su un divanetto di velluto granata davanti a un tavolo con tre bicchieri di porto. Aveva un giovane alla sua sinistra e un altro alla sua destra.