Recensione di “Epigrammi” di Marziale
Ha 24 anni Marco Valerio Marziale quando giunge a Roma. Si è lasciato alle spalle la piccola e quieta cittadina spagnola di Bilbili spinto dal desiderio di darsi alla poesia e di fare fortuna nella capitale dell’Impero. Ma nella caotica Roma, nel variopinto brulicare di vita delle sue strade e delle sue case, non trova che indigenza e stenti.
Tuttavia, pur in queste difficilissime condizioni materiali, il giovane poeta riceve abbondante nutrimento spirituale. La dilagante corruzione della Roma di Nerone, i vizi profondissimi e la devastante deriva etico-politica di cui soffre, ma anche la sua entusiasmante vivacità culturale, la suggestione irresistibile delle collettive adunanze dei giochi, l’amicizia con i massimi scrittori del tempo, segnano infatti in modo indelebile l’animo di Marziale e offrono al suo sguardo acuto e alla sua natura ricchissima e tormentata l’ideale contenuto dei suoi componimenti. Polemico avversario dello stile letterario allora in auge, che guardava con supina condiscendenza ai modelli classici dell’epica e della mitologia e affidava tutta la propria forza espressiva a evocative (ma abusate) soluzioni retoriche, Marziale sceglie la concisa essenzialità dell’epigramma e ne fa privilegiato strumento di un’osservazione spregiudicata della realtà che ha intorno.
Beoni, parassiti, liberti arricchiti che cercano in tutti i modi di far dimenticare al prossimo le loro umilissime origini, cacciatori di dote, osti tirchi e disonesti che vendono a peso d’oro vini di scarsissima qualità, poeti invidiosi delle fortune di Marziale, adulteri, omosessuali, donne prive di scrupoli, capaci soltanto di sfruttare le proprie grazie per ottenere benefici, mariti che accettano l’amante della moglie soltanto perché ricco, persone generosissime a parole e promesse che fanno perdere le proprie tracce non appena è necessario passare dalle chiacchiere ai fatti, medici ciarlatani che cambiano mestiere finendo per fare i becchini (nei fatti, dunque, la professione che svolgevano anche prima), uomini gravati da debiti che non hanno nessuna intenzione di onorare, ipocriti e traditori di ogni risma, padroni tanto vili quanto crudeli che sfogano le proprie frustrazioni sugli incolpevoli servi; Marziale spalanca gli occhi sulla vita quotidiana di Roma e la racconta con implacabile puntualità. Non c’è ombra di moralismo nei suoi versi; Marziale si limita a fare dell’uomo romano l’archetipo di vizi e turpitudini che appartengono all’umanità intesa come genere e non offre soluzioni per il naufragio cui assiste. La sua poesia è puntuta, carica di sarcasmo, spietata, compiaciuta; rivela senza reticenze, perché è la sola cosa che può fare, ma qui si ferma.
Lungi dall’essere un limite, questa caratteristica dell’opera di Marziale dà invece ancora più forza alla sua denuncia; uomo tra gli uomini, il poeta non si permette di guardare agli altri da una posizione più elevata, per questo il suo giudizio, feroce finché si vuole, è quello che ognuno di noi riserva alle persone che non ama, agli oggetti del suo disprezzo. E anche quando si allontana dal verminaio di Roma e dedica i suoi epigrammi (sparsi nel testo come inaspettate e splendide oasi in un ininterrotto deserto di desolazione morale e materiale) alla modesta e tranquilla vita di campagna (quella che predilige, pur non riuscendo a restare lontano dalla capitale, irrinunciabile fonte di ispirazione), al conforto offerto dagli amici più cari, alla nostalgia per la terra natia e al commosso omaggio verso chi della vita ha conosciuto soltanto il lato più doloroso e oscuro (come la schiava Erotion, morta a soli sei anni), Marziale non fa che contrapporre al disgustoso spettacolo di un’umanità corrotta la propria personale visione del mondo. Ancora una volta, proprio come farebbe ciascuno di noi.
Capace di guardare all’uomo (il più delle volte nel male, in qualche raro caso anche nel bene) da un punto di vista universale, Marziale offre ai lettori di ogni generazione ritratti che non invecchiano, nei quali chiunque di noi può riconoscere i propri amici e i propri nemici. E con un pizzico di onestà e di coraggio anche se stesso.
Eccovi qualche epigramma. Buona lettura.
Il candore di SosibianoTu sai, Sosibiano,di esser generato da uno schiavoe candidamente lo confessi,quando dici a tuo padre: «Mio signore».Sesto non è un debitoreTu non hai debiti, o Sesto,non ne hai proprio alcuno: lo confesso.Solo chi può pagare,Sesto, è un debitore.La cecità di Quinto«Quinto ama Taide».«Quale Taide?».«Taide guercia».«Taide è cieca d’un occhio,egli di tutti e due».Un aspirante alla nobiltàCinna, quando ti chiamo signore,non gonfiartene tutto:spesso così io rispondo al salutoanche del servo tuo.Il fiato pestilenziale di NestoreTi meravigli che l’orecchio di MarioPuzzi da far nauseare.La colpa è tua soltanto:tu, Nestore, ciarli nel suo orecchio.Un sospettoAvevi speso per comprar la casaduecento mila sesterzi, Tongiliano.Ora l’ha distrutta un accidenteche in Roma capita sovente.La colletta t’han fatto d’un milione.Scusa, ma non potrà sembrareche, Tongiliano, tu da teabbia appiccato il fuoco alla tua casa?Inutile crudeltàPerché affliggi il tuo servo in croce,o Pontico,dopo che la lingua gli hai tagliato?Non sai che il popolo ora dice quel che il tuo servo tace?La moglie di GalloTra i popoli libici tua moglieè infamata, o Gallo, gravementedi un’avidità senza misura.Ma sono pure e semplici calunnie:essa non suol ricever cosa alcuna.Che cosa dunque suole fare?Dare, dare se stessa.Il beneficio del podere nomentanoTu mi domandi, o Linocosa mi renda in fondo il Nomento?Esso mi rende questo beneficio:ch’io non ti vedo, o Lino.La predilezione di VacerraVacerra, la tua ammirazioneè per gli scrittori del passatoe lodi solo i poeti che son morti.Noi, Vacerra, ti chiediam perdono:non val proprio la pena di morireper poterti piacere.
Qu dovuto portare gli epigramma di Marziale per un esame di latino. Mi sono divertita moltissimo!
La prima volta che ho letto Marziale ero anche io studente (di liceo). Cominciai a leggere per un'interrogazione e non mio fermai più.