Recensione di “Nikawa” di William Least Heat-Moon
Sulle tracce della storia. Quella esaltante ed eroica dei Corps of Discovery agli ordini di William Clark e Meriwether Lewis, che al principio del XIX secolo attraversarono un Ovest ancora selvaggio e inesplorato per raggiungere la costa bagnata dall’Oceano Pacifico; e insieme quella artistico-avventurosa di Karl Bodmer, talentuoso pittore che il principe tedesco Massimiliano volle accanto a sé nella spedizione che organizzò e che partì alla volta dell’America del Nord nel 1832.
Sulle tracce dei loro sacrifici e delle loro scoperte, lungo il filo esilissimo, e nonostante ciò impossibile da spezzare, di memorie trascritte in dettagliati diari di viaggio, di emozioni travolgenti tramutate, grazie all’incantesimo dell’arte, in magnifici disegni, in acquarelli colmi di squisita grazia. Dal passato al presente lungo l’eco della storia, alla ricerca di una terra scomparsa eppure ancora viva, nascosta come un animale braccato ed esuberante di vita come un giorno appena sorto; da ciò che è stato ieri fino alle contraddizioni dell’oggi a cavallo della sola eternità che a un essere umano è possibile contemplare: quella di un fiume.
Testimone silenzioso (ma niente affatto muto) del trascorrere del tempo, del volgere dei millenni, del respiro stesso della terra, il fiume, o meglio l’intrico di fiumi, la frastagliata ragnatela di corsi d’acqua che in ogni direzione corre lungo il continente americano, è il teatro di Nikawa, superbo capitolo conclusivo della trilogia di romanzi di viaggi dedicata da William Least Heat-Moon alla riscoperta del “Nuovo Mondo”.
Dopo Strade blu e Prateria (entrambi recensiti in questo blog), l’autore racconta la realizzazione del proprio sogno più grande, cullato per oltre vent’anni e meticolosamente preparato: l’attraversamento dell’America dall’Atlantico al Pacifico a bordo di una barca, un “[…] incrocio fra una barca per la pesca alle aragoste e un rimorchiatore da porto d’inizio Novecento” battezzata Nikawa, “[…] un nome che coniai io stesso mettendo insieme le parole osage ni (fiume) e kawa (cavallo); si pronuncia Nii-cah-uah. Era davvero una cavallina di fiume, forte ma gentile”. Alternando, in uno stile di scrittura elegantissimo e ricco di suggestioni, aneddoti personali, rievocazione di particolari momenti storici e minuziosi resoconti di viaggio (a volte semplicemente curiosi e divertenti, altre volte cupi e drammatici), Least Heat-Moon conduce con sé il lettore in un cammino che non somiglia a nessun altro; il fiume (anzi, i numerosi fiumi cavalcati da Nikawa) respira in ogni pagina come una divinità immanente, nelle sue acque scure e gorgoglianti, o limpide e calme, nel suo letto profondo che nasconde il tempo stesso e tutto ciò che nel suo grembo infinito è sorto e tramontato, la sfida lanciata dall’autore a se stesso, la traversata quasi impossibile che uno sparuto gruppo di amici (mai nominati per nome, perché sul fiume non c’è spazio per gli individui ma soltanto per chi sceglie di immergercisi, diventando in questo modo egli stesso fiume, ma racchiusi dentro “etichette” identificative del ruolo di ciascuno: Pilotis, l’indispensabile copilota, il Photographo, incaricato di immortalare Nikawa in azione, il Professore, cui spetta il compito di precedere chi va sul fiume e di trainare la barca lungo quei pochissimi chilometri di traversata impossibili da fare in acqua) decide di compiere, non sono soltanto un’avventura, o una studiata pazzia, bensì un bisogno irrefrenabile di riscoprir se stessi e il proprio posto nel mondo in un incontro diretto con i luoghi che abitiamo senza conoscere, che sfruttiamo senza neppure renderci conto di farlo, che ignoriamo malgrado essi non cessino di parlarci, di ammonirci. “Vent’anni fa”, scrive Least Heat-Moon, “avevo già percorso così tanti chilometri di strade americane che sapevo ormai in agguato il giorno in cui non avrei più potuto prendere il volo verso posti nuovi – come Huck Finn, originario del Missouri come me, nonché viaggiatore fluviale. Fu allora che notai la ragnatela di linee azzurro pallido che ricamavano il mio atlante come vene varicose. Erano fiumi. Cominciai a seguire col dito quelle contorsioni, alla ricerca di un modo per attraversare l’America in barca […]. Una notte, sedici mesi prima di partire, fremente di eccitazione, individuai quella che credevo fosse l’ultima tessera di questo mosaico fluviale e in quel momento capii di dover intraprendere il viaggio a qualsiasi costo. Quando un Graal fa la sua comparsa, l’anima deve seguirlo”.
In oltre 500 pagine che non fanno mai registrare cali di tensione né ripetizioni di sorta, Least Heat-Moon (come già fatto, seppur in modo differente, negli altri capitoli del suo magnifico affresco letterario) squaderna dinanzi al lettore sbalordito e affascinato un America completamente inedita, un luogo della terra e dello spirito dove miracolosamente convivono (per quanto in un equilibrio sempre più precario e pericoloso) uomo e natura, dove l’ingegneria, la tecnica e la scienza sono allo stesso tempo dimostrazione della potenza degli uomini e della loro capacità di adattare l’ambiente alle proprie necessità e prova inconfutabile e tragica di una rovinosa miopia della mente e della cuore, e dove (come nelle indimenticabili pagine centrali del libro, dedicate alla navigazione sul fiume più ingovernabile ed enigmatico d’America, il Missouri, fatale e irresistibile come un canto di sirena) tutto ciò che è primordiale e incorrotto ha ancora la forza di far sentire la propria voce, di soffiare il proprio fiato nel vento, di mugghiare il proprio canto nell’incresparsi perenne delle onde, nel fluire incessante della corrente.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Einaudi, è di Marco Bosonetto. Buona lettura e buone vacanze a tutti.
Se volete i particolari: aveva un nocciolo di balsa spesso cinque centimetri ricoperto di vetroresina, con scafo piatto a poppa e a V a prua; lunga poco più di sei metri e mezzo e larga quasi due e mezzo nel punto di massima ampiezza; circa settecentosettanta chilogrammi di peso vuota, venti centimetri di pescaggio minimo che diventavano settantacinque con motore a carico; modello C-Dory, costruita vicino a Seattle nel gennaio del 1995. La barca poteva essere facilmente caricata su un piccolo rimorchio.