Recensione di “La chiave di vetro” di Dashiell Hammett
La scrittura scarna, essenziale, che riduce la narrazione a una cronaca di fatti, che si concentra unicamente su quel che viene compiuto, su ciò che si decide e sulle conseguenze cui dà luogo e lascia tutto il resto sullo sfondo, come cosa priva d’importanza; la sincerità rude di una prosa che non si lascia distrarre, immune alle lusinghe della bellezza, dell’armonia, della musicalità, indifferente al colore, alla ricchezza di dettagli, alla ricercatezza, sospettosa persino nei riguardi dell’approfondimento psicologico, in una parola, diffidente.
Nell’universo letterario di Dashiell Hammett, a trionfare sembra essere il silenzio, a imporsi è una predisposizione che a prima vista potrebbe venir scambiata per cautela (se non addirittura per una specie di timidezza prossima alla paura), ma che in realtà riflette una ben precisa visione dell’uomo e della società; lo scrittore americano, infatti, che nella vita lavorò anche come investigatore per la famosa agenzia Pinkerton (attività che più di qualsiasi altra ispirò le sue opere, cupe e torbide storie di gangster e corruzione), nel suo costante “creare per negazione”, nel suo risoluto togliere spazio (e dunque legittimità) a tutto ciò che in una storia si può considerare superfluo – dall’ambientazione, per definire la quale qualche accenno è più che sufficiente, fino alla dettagliata definizione dei caratteri, che nulla aggiunge ai personaggi e alla loro statura etica, nettamente definita dal comportamento – offre al lettore una realtà certamente semplificata ma senza alcun dubbio vera, autentica, solida, e quel che più conta sempre attuale.
Scrittore che preferisce non fidarsi troppo delle parole, considerate sfuggenti, traditrici (così facili come sono a vestire nuovi significati, a lasciarsi interpretare, a servire ora un interesse e un istante dopo l’interesse opposto), per affidarsi alla trasparente univocità dei fatti, e alla ferrea coerenza che pretendono da chi si assume la responsabilità di farli propri, Hammett costruisce storie che hanno il sapore eroicamente doloroso dei duelli d’onore; i suoi romanzi sono racconti di gesta, sono epica della vita di strada, leggende di giustizia e malavita, e a incarnarle sono uomini la cui unica capacità è l’azione, uomini come Ned Beaumont, protagonista dell’incalzante giallo La chiave di vetro, incallito giocatore d’azzardo, detective dilettante ma non privo di fiuto, braccio destro e consigliere di Paul Madvig, uomo d’affari con pochissimi scrupoli (e le cui fortune sono legate a doppio filo ad alcune figure politiche e al loro successo elettorale); non esattamente un santo, dunque, né un paladino senza macchia, e tuttavia una persona con un saldo codice d’onore, che non verrebbe mai meno alla parola data, che conosce e rispetta il valore dell’amicizia, alla quale non c’è cosa che non sacrificherebbe, a partire da se stesso.
“Ned Beaumont, con in testa un cappello che non gli calzava perfettamente, seguì il facchino che portava le sue valigie attraverso la Grand Central Station verso l’uscita sulla Quarantaduesima Strada e salì in un tassì. Diede all’autista l’indirizzo di un albergo oltre Broadway e si appoggiò allo schienale accendendo un sigaro. Quel sigaro lo masticò più che fumarlo mentre il tassì arrancava verso Broadway nel traffico denso. In Madison Avenue un tassì verde, svoltando col semaforo rosso, andò a sbattere dritto dritto contro il tassì marrone di Ned Beaumont spingendolo verso una macchina ferma oltre l’incrocio in una pioggia di vetri infranti. Ned Baumont uscì veloce tra la piccola che subito s’era ammassata, disse che non s’era fatto male, rispose alle domande del poliziotto. Trovò il cappello che non gli calzava perfettamente e se lo rimise in testa. Trasportò le sue valigie su un altro tassì, diede il nome dell’albergo al conducente e si accartocciò in un angolo, pallido e coi brividi, finché duro la corsa”.
Al centro di un intricato complotto, stretto tra omicidi, serie minacce alla sua incolumità e doppi giochi, arruolato suo malgrado e costretto a combattere la guerra senza quartiere che l’amico Madvig ha scatenato contro altri affaristi come lui, decisi a liberarsi una volta per tutte della sua ingombrante presenza, Beaumont non viene mai meno alla sua lealtà; il suo ritratto, che la penna di Hammett, così attenta all’indispensabile da parer guidata dal principio metodologico del “rasoio di Occam” (entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem; non si devono moltiplicare gli elementi se non c’è necessità di farlo), fa emergere esclusivamente dalle sue decisioni, dalle prese di posizione (e da esplosioni di discorso diretto, simili a sfoghi, che hanno lo scopo di dare ragione di certi suoi comportamenti, una volta che il dado è stato tratto e non è più possibile fare marcia indietro), è quello imperfetto e nonostante ciò in qualche modo ideale dell’uomo; il ritratto di chi, di fronte a una scelta che non concede né scorciatoie né facili vie d’uscita, ha il coraggio di non sottrarsi, di non fuggire, di non rinunciare a se stesso.
Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione per Longanesi è di Elisa Morpurgo. Buona lettura.
I dadi verdi ruzzolarono sul tavolo verde, batterono simultaneamente sull’orlo e rimbalzarono indietro. Il primo si fermò quasi subito rivelando sulla faccia rivolta in alto sei puntolini bianchi in due file parallele. L’altro rotolò fino al centro del tavolo e si immobilizzò con un solo puntolino sulla faccia. Ned Beaumont borbottò a mezza voce: «Eh!» e i vincitori spazzarono via il denaro dal tavolo.