Recensione di “Mattatoio n. 5” di Kurt Vonnegut
Chiamata a esprimere l’inesprimibile, a dare voce (e dunque, almeno in qualche misura, anche un perché, una ragione) a orrori così spaventosi da non poter essere neppure immaginati, la parola si scopre capace di superare di se stessa; trova lo slancio necessario a ridisegnare la propria geografia semantica, arriva a nutrirsi di quella folle, generosa anarchia che sola le permette di reinventarsi nella forma, nello stile, nell’architettura narrativa, e in tal modo replica alla realtà d’incubo con la quale è chiamata a misurarsi con l’abbagliante esultanza di un miracolo creativo.
Chiamato a raccontare uno dei più insensati massacri della storia – “È tutto accaduto, più o meno […]. Un tale che conoscevo fu veramente ucciso, a Dresda, per aver preso una teiera che non era sua. Un altro tizio che conoscevo minacciò veramente di far uccidere i suoi nemici personali, dopo la guerra, da killer prezzolati […]. Io ci tornai veramente, a Dresda, con i soldi della Fondazione Guggenheim (Dio la benedica), nel 1967. Somigliava molto a Dayton, nell’Ohio, ma c’erano più aree deserte che a Dayton. Nel terreno dovevano esserci tonnellate di ossa umane” – l’atto dello scrivere, del descrivere, del replicare un fatto, volta le spalle alla propria tragica insufficienza per aprirsi a una dimensione nuova, a uno spettro vocale sconosciuto dove a dominare è ancora l’accadimento in sé, ma non più nella sua oscena nudità, bensì nel travestimento iperbolico e dolcemente fantastico della fiaba, del racconto stralunato, dell’invenzione innocente e purissima. Così, l’eccidio di Dresda, il terrificante bombardamento alleato che tra il 14 e il 15 febbraio del 1945 causò, con la distruzione pressoché totale della città, 135.000 vittime (per rendersi conto della gravità della strage basti pensare che la bomba atomica americana sganciata su Hiroshima provocò, al suo impatto, la morte di 71.379 persone) si fa tappa del peregrinare nello spazio e nel tempo dell’anonimo, tenero e grottesco Billy Pilgrim, protagonista dello splendido e intensissimo Mattatoio n. 5, uno dei romanzi più celebri (e più riusciti) di Kurt Vonnegut. Uomo qualunque rapito dagli alieni, condotto sul pianeta Tralfamadore e divenuto in forza di ciò (e suo malgrado) mite custode dei segreti del tempo, della vita e della morte, Pilgrim non è semplicemente l’alter ego dell’autore; plasmato dal delicato sussurro della comicità di Vonnegut, cresciuto nel trasparente liquido amniotico di una prosa che, come una pietosa mano, carezza la piagata superficie di ciò che è per conoscerla, impararla e restituirla intatta alla coscienza di ciascuno, Billy Pilgrim è l’antieroe senza peccato gettato nella spietata arena della ferocia umana. Ed è soltanto attraverso il suo sguardo limpido, attraverso la sua ingenuità di fanciullo, attraverso le sue esperienze uniche e incomunicabili (che tuttavia egli cerca di condividere con il maggior numero possibile di persone, incurante della sprezzante incredulità che le sue parole suscitano) che l’insensato massacro di Dresda (e con esso la sanguinosa metastasi della guerra) può trovare forma.
Abbigliata con gli sgargianti abiti clowneschi che Pilgrim, quasi senza rendersene conto, fa indossare a tutto ciò che vive, la guerra diventa d’improvviso materia narrativa; la beffarda metamorfosi letteraria cui, grazie all’immaginazione di Billy Pilgrim, la costringe Vonnegut, tramuta la sua cupa presenza d’ombra nell’evanescente e disarmata rappresentazione di una pellicola bellica, per di più trasmessa al contrario, dalla fine all’inizio anziché dal principio alla conclusione: “Gli aerei americani, pieni di fori e di feriti e di cadaveri decollavano all’indietro da un campo d’aviazione in Inghilterra […]. Gli aviatori americani lasciarono l’uniforme e diventarono dei ragazzi. E Hitler, pensò Billy, divenne un bambino. Questo nel film non c’era. Billy stava estrapolando. Tutti tornarono bambini, e tutta l’umanità, senza eccezione, cooperò biologicamente fino a produrre individui perfetti di nome Adamo ed Eva”. E in questa dissoluzione quasi magica della guerra, in questo tocco di gentile insensatezza che ha l’immenso potere di dare senso a qualcosa che non ha nessuna ragione, nessuna giustificazione, anche Dresda l’innominabile può dissolversi e trovare pace, può essere descritta, e ricordata, per ciò che è davvero stata nell’esatto momento in cui, talmente disseminata di crateri e macerie da ricordare la luna, la luna stessa romanticamente richiama nel fiorire di pensieri e ricordi di Billy Pilgrim, l’uomo che ha viaggiato nello spazio e nel tempo, che ha conosciuto la morte e la vita e che sa, perfettamente sa, che né per l’una né per l’altra mette conto piangere e disperarsi.
Indimenticabile romanzo-capolavoro, Mattatoio n. 5 è un’opera fondamentale, una lettura necessaria, carica di bellezza, pietà e dolore; è, insieme, testimonianza eterna e necessario insegnamento, entrambi narrati in una lingua che è tutte le lingue degli uomini.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Feltrinelli, è di Luigi Brioschi. Buona lettura.
È tutto accaduto, più o meno. Le parti sulla guerra, in ogni caso, sono abbastanza vere. Un tale che conoscevo fu veramente ucciso, a Dresda, per aver preso una teiera che non era sua. Un altro tizio che conoscevo minacciò veramente di far uccidere i suoi nemici personali, dopo la guerra, da killer prezzolati. E così via. Ho cambiato tutti i nomi.
Recensione a mio modo di vedere formalmente molto bella. Non condivido però l’entusiasmo sul libro, proprio perché, come viene fatto notare, Vonnegut ci propone “questa dissoluzione quasi magica della guerra, [in] questo tocco di gentile insensatezza che ha l’immenso potere di dare senso a qualcosa che non ha nessuna ragione, nessuna giustificazione.” E invece, purtroppo, la guerra una precisa giustificazione e una tragica regione ce l’ha, come l’ha avuto il crimine di guerra (perché tale fu) della distruzione di Dresda e dei suoi abitanti. E Vonnegut, statunitense e testimone dell’orrore, non fa nulla per spiegarci perché tutto ciò è accaduto, compiendo a mio avviso una grande operazione di rimozione. Se per caso ti interessa approfondire il mio punto di vista trovi la recensione sul mio blog http://www.delfurore.wordpress.com.
Ciao, prima di tutto grazie per il tuo commento e complimenti per il tuo blog, che esplorerò con più calma nei prossimi giorni. E ora vengo a ciò che hai scritto, sottolineando in prima istanza ciò che mi trova concorde, e cioè la devastazione di Dresda, che fu innegabilmente un crimine di guerra, e poi ciò da cui dissento, e cioè che Vonnegut con questo romanzo rimuova ciò che è stato. È vero l’opposto a mio avviso, perché se è indubbio che la guerra abbia le sue ragioni e i massacri le loro motivazioni, le loro “giustificazioni”, è altresì certo che tutte queste ragioni, fin troppo umane, non siano affatto ragioni, non abbiano, in una parola, alcun senso. Proprio per questo il testimone Vonnegut, dovendo dar voce all’indicibile, lo riflette nello specchio grottesco della fantasia sfrenata (che tuttavia ha sempre più di un aggancio con la realtà dei fatti); egli diviene dunque un viaggiatore nel tempo e nello spazio, perfettamente compatibile, in questa sua veste, con una città trasformata da un martellante bombardamento nel tragico riflesso della superficie lunare; Vonnegut/Pilgrim è deriso e disprezzato dagli uomini che la guerra l’hanno fatta trovandoci un perché o non perdendo neppure tempo a chiedersi se un perché fosse necessario, e di quegli uomini il testimone Vonnegut offre ritratti in nero, disgustosi e feroci, che ben rappresentano il suo punto di vista su tutto quello che è accaduto. “Mattatoio”, per concludere, trovo abbia un preciso indirizzo morale e pertanto sia l’esatto contrario di una rimozione.
Un caro saluto
Paolo
Ciao Paolo e grazie per la pronta risposta.
Anche io “comprendo” il testimone Vonnegut, che forse non aveva altro modo per raccontare l’indicibile che aveva visto. Trovo però che di fronte a questo un intellettuale avrebbe il dovere di “farci fare un passo avanti” nella comprensione di perché queste cose succedono. Mi viene in mente ad esempio la lucidità satirica di Karl Kraus ne “Gli ultimi giorni dell’umanità” oppure gli scritti di Primo Levi. Da questo punto di vista credo che Vonnegut abbia perso un’occasione per dimostrarsi un vero intellettuale, in grado non solo di raccontare, ma di far capire. Nella mia recensione dico anche che forse da uno scrittore statunitense, che quindi si sentiva doppiamente parte in causa, non ci si poteva aspettare di più. Al fondo delle mie considerazioni, comunque, ci stanno i miei interessi letterari e la mia concezione sul ruolo della letteratura, che non pretendo altri condividano, anzi: mi piace confrontarmi con chi la può pensare diversamente (ho quindi iniziato a seguire il tuo bel blog, e in particolare quando scriverai di “classici” ti leggerò con vivo interesse, perché da quanto ho potuto vedere nelle tue recensioni ci sono spunti di discussione e di riflessione molto interessanti e per di più espressi con molta proprietà.
A presto
Vittorio
Ti ringrazio molto, Vittorio. Gli autori che tu citi sono molto diversi tra loro, e diverso (per fortuna) è il concetto di letteratura che ciascuno ha. In Italia, poi, ci sarebbe tutto un discorso da fare sul legame, spesso deleterio, tra letteratura e ideologia, e di conseguenza sul ruolo giocato dall’intellettuale, da chi ha (meglio, avrebbe) la responsabilità di fare cultura. Trovo che la letteratura, nella misura in cui è buona letteratura (è cioè in grado di parlare a tutti, di procedere dal particolare all’universale) aiuti sempre a comprendere e dunque non sia mai un’occasione persa. Si tratta, va da sé, solo della mia opinione. Felice di questa chiacchierata, mi auguro di farne altre.
Un caro saluto
Paolo