Recensione di “La luna è tramontata” di John Steinbeck
Il principio si origina dalla fine, la resa si fa fondamento della rinascita e la sconfitta primo motore della rivincita. Schiacciate ma non asservite, volontà e dignità, il fiato mozzo dell’animale braccato il cui solo imperativo è sopravvivere, resistere a coloro che senza tregua lo cacciano, poco alla volta riacquistano il terreno perduto, l’affanno e il terrore mutano in tensione, in un generoso slancio vitale il cui obiettivo non è più, semplicemente, quello di continuare a respirare, di non cedere, di non morire, ma di riprendere il proprio posto usurpato.
La guerra, che sempre si risolve in “tradimento e odio… tortura, assassinio, disgusto e stanchezza, finché poi è finita e nulla è mutato, sennonché c’è una nuova stanchezza, un nuovo odio”, respira in una dimensione eminentemente etica nel romanzo La luna è tramontata di John Steinbeck. Lontano dal sangue e dagli orrori del fronte, il conflitto viene qui presentato sotto il chirurgico (e, almeno in apparenza, quasi rassicurante) aspetto di un’invasione minuziosamente organizzata e portata a compimento quasi senza colpo ferire; in un attimo tutto si è già concluso ed è proprio questo l’incipit dell’opera del grande autore americano.
Ma è esattamente da questo punto, dall’istante decisivo che per gli occupanti ha il dolce sapore del trionfo mentre dinanzi ai loro avversari spalanca un baratro di umiliazione, che le cose cominciano a cambiare, che lo spirito di un popolo, di una nazione, a torto considerata già vinta, trova in sé il coraggio di reagire. Steinbeck racconta con semplicità e nello stesso tempo con grande intensità emotiva e trasparente partecipazione, calandosi, uomo tra gli uomini, nel cuore di un Paese che non intende arrendersi, un Paese che in egual modo si rispecchia nel severo contegno dei suoi rappresentanti istituzionali e nella rabbia dei cittadini più umili: “Signore”, replica il sindaco della città conquistata al comandante dell’esercito nemico, il quale auspica che il nuovo stato di cose non causi rivolte, che verrebbero immediatamente soffocate, “io appartengo a questo popolo, e tuttavia non so che cosa farà. Forse lo sapete voi […]. Vi sono popoli che accettano capi imposti loro, e a cui obbediscono. Ma il mio popolo ha eletto me. Mi hanno fatto e possono disfarmi […]. Il mio popolo non ama che altri pensi per lui. Forse è diverso dal vostro popolo. Sono confuso, ma di questo sono sicuro”.
Nel raccontare lo smarrimento dello sconfitto, Steinbeck non manca mai di sottolineare la sua inviolabile capacità di resistenza non tanto e non solo alle contingenze sfavorevoli ma a qualsiasi cosa venga percepita come essenzialmente ingiusta, come contraria a tutto quanto si possa definire proprio dell’essere umano, connaturato alla sua natura intesa nel senso più nobile del termine; ed è proprio in virtù di questa categoria dell’essere che lo stato di cose descritto all’inizio del libro si trasforma, passo dopo passo, come fosse una sentenza già scritta in attesa di venir applicata, nel suo opposto.
Ha dunque i chiari contorni di un apologo questo romanzo di John Steinbeck, il suo narrare ha uno scopo, conduce in una direzione precisa; in questo senso, gli equilibri fittizi del racconto (che vede chiaramente schierata da una parte la ragione e dall’altra il torto) non sono che strumenti al servizio della tesi che si vuole argomentare e difendere; non si tratta di ingenuità o difetti, ma di scelte deliberate, le quali, tuttavia, pur nella loro evidenza, sembrano farsi da parte di fronte a qualcosa di più importante, solido e definitivo: il sincero, commosso umanesimo dell’autore, il pietoso sguardo che egli getta intorno a sé.
Così, ecco che a unire in un unico, vibrante quadro di caduta e resurrezione è proprio l’elemento umano, l’appartenenza, per tutti la medesima, al consesso dei viventi, che fa sì che chiunque, al di là delle circostanze nelle quali in un determinato tempo si trova a vivere e operare, provi certi sentimenti, sia attanagliato dall’angoscia, bisognoso d’attenzione, affamato d’amore. Steinbeck racconta di una grigia fratellanza nella pena e nella sofferenza, di un inesprimibile anelito alla solidarietà che abbraccia aggressori e aggrediti, che nuovamente affratella, in una spasmodica ricerca di pace, Abele e Caino, che mette ognuno dinanzi alla feroce assurdità della contrapposizione e della battaglia, costringendolo a un liberatorio ripudio della perversa logica bellica dello sfruttamento.
Nel disegno di Steinbeck, così carico di dolore e compassione, oltre quel che emerge, oltre al premio alla virtù e al castigo del vizio, oltre all’obbedienza dei fatti a un più elevato, metafisico ordine di giustizia – “I popoli non amano essere conquistati e per questo non lo saranno. Gli uomini liberi non possono scatenare una guerra, ma una volta che questa sia cominciata possono continuare a combattere nella sconfitta. Gli uomini-gregge, seguaci di un capo, non possono farlo, ed ecco perché sono sempre gli uomini-gregge che vincono le battaglie e gli uomini liberi che vincono le guerre. Vi accorgerete che è così, signore” – è il tragico destino comune degli uomini, vittime di guerra.
Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Mondadori, è di Giorgio Monicelli.
Alle dieci e quarantacinque tutto era finito. La città era occupata, i difensori abbattuti e la guerra finita. L’invasore s’era preparato per questa campagna con la stessa cura che per altre di maggiore ampiezza.