Recensione de “La settima lettera” di Vintila Horia
“Il lettore moderno possiede l’indiscreta prerogativa di potersi addentrare nei casi quotidiani e nei recessi dell’anima di un Kafka, di una Woolf, o di quanti altri affidarono a lettere e diari le angosce e le gioie delle proprie giornate. E quando pure manchino autografe testimonianze, vengono in soccorso documenti, memorie di contemporanei, la tendenza stessa a riflettere fatti della vita e moti dell’interiore nell’opera letteraria.
Quest’uso era già consueto presso i Romani; ma per l’epoca in cui la Grecia fu grande, sulla realtà personale di letterati e pensatori si possiedono scarne e frammentarie tracce, che trapelano a fatica entro un sistema culturale retto da una severa norma di oggettivazione […]. L’opera letteraria e filosofica di Platone era stata famosa e importante; ma anche alla sua vita non erano mancati momenti di grandezza, ed essa aveva lasciato un segno nella memoria dei contemporanei e dei posteri […]. Nella sua biografia c’era soprattutto un episodio che restava avvolto in un’aura di magnanimità e mistero. Quale impulso interiore l’aveva spinto per tre volte a lasciare la sua Atene per la Sicilia, precipitandosi nella generosa quanto disperata impresa di fondare un nuovo ordine politico e sociale, che avesse il proprio epicentro proprio a Siracusa?”. Nella densa introduzione a La settima lettera dello scrittore rumeno Vintila Horia pubblicata da Rizzoli (collana La Scala, traduzione di Orsola Nemi), Dario Del Corno illumina senso e obiettivi di questo originalissimo lavoro, insieme dotta e raffinata rivisitazione romanzesca di un’avventura filosofica e viaggio, reale e metaforico, alla scoperta di un uomo e di un pensatore la cui opera e il cui esempio stanno a fondamento della cultura occidentale.
Prendendo le mosse dal corpus delle Lettere attribuite a Platone (la maggior parte delle quali l’accurato lavoro degli storici ha rubricato come false) e concentrandosi in particolar modo sulla settima – la cui autenticità e importanza è oggi quasi unanimemente considerata indubbia – che racconta il sogno (e il fallimento) siciliano del grande filosofo, Horia da vita a un romanzo fastoso, ricchissimo e travolgente, nel quale la perfezione dello stile, lungi dall’esaurirsi in uno sterile sfoggio di eleganza retorica (del resto aborrita da Platone), introduce il lettore alla straordinaria complessità del mondo interiore del filosofo; l’incessante appetito di bellezza e verità della sua anima, attratta tanto dall’inconoscibilità del divino quanto dalla sublime esattezza delle scienze matematiche, la rettitudine dell’uomo e dello stato, del singolo e della comunità, inseguita durante tutta la sua vita, organizzata nell’insegnamento orale dell’Accademia e offerta all’eternità attraverso il sigillo della parola scritta, la fedeltà morale e intellettuale al maestro Socrate, vittima della tirannide e della brama di potere di cuori e menti prive della luce della sapienza e della filosofia, l’amore per Dione, discepolo prediletto destinato, nel fiammeggiante desiderare del suo precettore, a diventare il re-filosofo di una città ideale che mai vedrà la luce, riverberano in un prosa magnifica e attenta, in un omaggio dichiarato alla parola, alla sua armonia e soprattutto all’eredità di significati che porta con sé e alla responsabilità cui chiama coloro che la fanno propria, vestendo della grazia dei suoi suoni ogni decisione, ogni azione, votando ad essa un’intera esistenza.
Spronato da un’immaginazione visionaria che vedeva, nella Siracusa retta da un tiranno non del tutto sordo alla voce della filosofia, il luogo elettivo nel quale fondare Calipoli, la città bella perché giusta, la città bella perché divina, la città bella perché governata solo secondo ragione, e nel medesimo tempo assalito da ogni sorta di dubbio, incapace di accettare quel che la semplice evidenza dei fatti gli metteva di continuo dinanzi agli occhi – che i tempi non erano maturi, e che forse non lo sarebbero stati mai, perché il suo disegno potesse realizzarsi, perché la purezza dell’idea, calata nella caducità del reale, potesse trasformarlo e salvarlo e non invece venirne irrimediabilmente corrotta – il Platone disegnato Vintila Horia è un uomo vinto e disperato, è il simbolo di una sconfitta che tuttavia sdegnosamente rifiuta di essere resa; risplende in lui, a dispetto del suo scacco per tre volte replicatosi (i suoi viaggi a Siracusa, infatti, avvenuti a una ventina d’anni di distanza l’uno dall’altro, a nulla hanno condotto se non a cocenti delusioni e a dolorosissime tragedie personali e collettive), la nobiltà invitta dell’età aurea della classicità, così come con inalterata forza risuona la necessità del suo impegno e del suo sacrificio; non si può, ripete a più riprese Platone, cessare di tendere verso ciò cui l’uomo per sua natura dovrebbe sempre tendere, perché è la virtù, custodita da un Dio troppo disgustato dalla miseria degli uomini per mostrare nuovamente il suo volto, ma il cui volontario esilio dovrà prima o poi concludersi, il solo scopo degno della nostra vita, e della morte che ci attende alla fine di essa.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura e i miei più sinceri auguri di Buone Feste.
Tutto cominciò con una profanazione. Io avevo vergogna e paura a un tempo; distolsi gli occhi dalla testa mutilata e li fissai lontano, nel crepuscolo di sangue, come se avessi già cercato un segno, quella della collera dei dio oltraggiato.