Recensione di “Cronache di poveri amanti” di Vasco Pratolini
La storia sfiora e insieme sommerge una via oscura e lercia di Firenze; qui è ovunque il lezzo di miseria, ogni respiro è fatica, e ogni notte il greve sonno dei vinti è una resa allo sfinimento dei corpi provati dal lavoro quotidiano. Qui, tra le case addossate le une alle altre, l’aria è pesante e immobile d’estate e un gelido schiaffo d’inverno; qui le stagioni, come qualsiasi altra cosa del resto, sono peccati da scontare.
Eppure qui la vita esplode in variopinti fuochi d’artificio di gioia e sofferenza, si accende nelle schermaglie amorose dei giovani e si fortifica nella lealtà delle coppie di più lunga data; divampa nelle invidie per le altrui fortune, si consuma, come un’anima dannata, nella curiosità sempre frustrata di tutto conoscere e tutto sapere per subito saziarsi nell’illusoria rivincita della maldicenza spacciata per verità, della menzogna propalata al solo scopo d’offendere, di ferire, di colpire al cuore il proprio bersaglio. La storia sfiora e insieme sommerge la fiorentina via del Corno, e con essa culla e travolge i suoi abitanti, quei “cornacchiai” semianalfabeti, talmente folli da tramutarsi spesso in grottesche parodie di sé e tuttavia vestiti di quella autenticità d’uomini e donne che sola appartiene a chi nasce e muore popolo, a coloro cui il destino impone di venire al mondo “ultimo” e tale rimanere. Di loro, con un lirismo che commuove per bellezza e intensità d’accento, e con un’attenzione alla sincerità dei cuori e alla realtà degli eventi che regala all’autore il crisma dello storico oltre a quello del romanziere, racconta Vasco Pratolini in quello che è forse il suo romanzo più famoso e conosciuto, Cronache di poveri amanti.
Nei suoi ritratti, le piccole, anonime storie dei singoli incontrano gli eventi ed entrano a farne parte; acque di minuscoli affluenti, le ordinarie vicende di maniscalchi, spazzini, tipografi, operai, ragionieri, i sogni ingenui di ragazze affacciate al domani con tutta la dolce esuberanza della loro età adolescente, le costanti preoccupazioni dei padri e delle madri, impegnati a sopravvivere, a strappare a ogni giorno il necessario, l’indispensabile, quel che occorre per arrivare al giorno successivo, corrono tumultuose a ingrossare la corrente del fiume principale, il moto incessante del presente, che nel biennio 1925-1926 (stagione nella quale il romanzo è ambientato) vede sorgere la rivoluzione armata del fascismo, il nuovo ordine e con esso la patria finalmente riconquistata alla dignità che le spetta.
L’antifascista Pratolini non si nasconde nel suo lungo e splendido narrare; Cronache di poveri amanti è per larghi tratti scopertamente un romanzo politico, e come è lecito aspettarsi, in tutte queste parti egli non manca di affidare le proprie convinzioni ai personaggi con cui è più facile e immediato solidarizzare (su tutti il maniscalco Corrado, soprannominato Maciste per la non comune prestanza fisica e l’eccezionale altezza), quelli le cui virtù risaltano, la cui coerenza poggia su solide basi e i cui argomenti, di conseguenza, sono più forti, più incisivi, più convincenti; di questo suo schierarsi, tuttavia, che per Pratolini è un inderogabile dovere letterario e non solo una testimonianza militante, non soffre la maturità della sua costruzione.
Non ci sono punti deboli nell’architettura narrativa di Cronache di poveri amanti perché tutto si regge su una visione delle cose che rifiuta ogni possibile determinismo; manca, in Vasco Pratolini, la fede nel trionfo dell’idea, cui egli sostituisce la disincantata (e proprio per questo tanto più preziosa) visione dello spettatore; interessato, certo, da tutto ciò che si svolge davanti ai suoi occhi, ma non al punto da accettare di essere parte in causa, rischiando così di perdere la propria oggettività.
Ecco allora trionfare, malgrado la pusillanimità, la codardia, la viltà oscena del cuore e dei gesti, Carlino lo squadrista, che saprà far carriera nel nuovo clima politico, ecco che i tributi di sangue innocente (ma è davvero innocente il sangue del nemico politico?) che ogni rivoluzione degna di questo nome esige verranno onorati senza che alcuno paghi per le proprie responsabilità, né gli esecutori né tantomeno i mandanti, ecco che gli sfruttati continueranno a chinare il capo di fronte agli sfruttatori, a subirne i soprusi, perché è proprio dell’uomo essere ingiusto e malvagio e intrinseca all’idea l’impossibilità di incarnarsi, di acconciarsi a ciò che è per natura imperfetto. Cronache di poveri amanti è dunque nel medesimo tempo un affresco familiare e uno spaccato del nostro passato recente, è un rievocare, un ricordare che ha l’agrodolce sapore della nostalgia (si pensi alle meravigliose pagine dedicate all’arte ludica delle “rificolone” e al loro utilizzo, e all’indimenticabile descrizione della goliardica “scampanata”) e il tono grave dell’ammonimento.
Leggete, o rileggete, questo capolavoro. Lo scoprirete intatto, e meritevole del titolo di classico. Eccovi, come sempre, l’incipit. Buona lettura.
Ha cantato il gallo del Nesi carbonaio, si è spenta la lanterna dell’Albergo Cervia. Il passaggio della vettura che riconduce i tranvieri del turno di notte ha fatto sussultare Oreste parrucchiere che dorme nella bottega di via dei Leoni, cinquanta metri da via del Corno.
Grazie! Pratolini è un po’ dimenticato ma io l’ho sempre amato molto, lessi Cronache di Poveri Amanti da ragazza e poi molte altre volte perchè è uno dei libri del cuore, a cui tornare ogni tanto. Ho amato molto anche Lo Scialo, anche questo un libro che ho riletto parecchie volte, con sfumature e prospettive che ogni volta mutano, si rinnovano, mi sorprendono.
Grazie a te e buone letture.