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Foster Wallace, l’alchimista del romanzo

Recensione di “Infinite Jest” di David Foster Wallace

David Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi
David Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi

Nel panorama della grande letteratura americana, e in special modo tra quegli autori le cui opere sono caratterizzate da particolarissime atmosfere sospese tra iperrealismo e surrealismo, David Foster Wallace occupa sicuramente un (meritato) posto d’onore.


Nel suo romanzo più complesso e più noto, Infinite Jest, lo scrittore, morto suicida nel 2008 a soli 46 anni di età, si ispira, tanto per l’intricata architettura della trama quanto per l’eccezionale numero di pagine (1434, se si considera anche l’imprescindibile sezione riservata alle note al testo, ben 388) a tre capolavori assoluti: Underworld di Don DeLillo, L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon e JR (ma si può dire lo stesso anche per Le perizie) di William Gaddis.

Quasi fosse un chimico impegnato nella ricerca di un equilibrio letterario finora mai raggiunto, nella realizzazione di una nuova prosa, Foster Wallace distilla, da ciascuno dei romanzieri presi a modello, precise caratteristiche; la maestria nella costruzione (e nella descrizione) di personaggi e ambienti da DeLillo; le geometrie impossibili della trama (volutamente labirintica, spiazzante, priva di punti di riferimento e incurante delle più comuni regole espositive) dalla sfrenata e anarchica genialità di Pynchon; il gusto, raffinatissimo e crudele, per l’iperbole e il grottesco da William Gaddis.

In Infinite Jest tutto questo materiale, sorretto da una prosa che sembra in grado in ogni momento di cambiare pelle, di trasformarsi nell’esatto opposto di se stessa e subito dopo di tornare a essere ciò che era solo per riprendere nuovamente il proprio inarrestabile ciclo di mutazioni, diventa nodo narrativo, singolarità stilistica, vertiginosa capacità d’inventare, di sorprendere.

Incantatore, illusionista, prestigiatore (che attraverso l’inganno dei sensi svela il reale invece di celarlo), Foster Wallace gioca con l’essenza della scrittura, ne accarezza l’intima instabilità, la potenziale capacità di divenire qualsiasi cosa, e così facendo costruisce un intero mondo, esplorato al microscopio fin nel cuore del più insignificante dettaglio atomico e visto nella sua totalità, come un pianeta osservato dallo spazio.

Un mondo non troppo diverso da quello che conosciamo, dominato dalla dipendenza (dalle droghe, dalla pubblicità, dalle più comuni forme di condizionamento di massa, come per esempio il cinema – Infinite Jest è il titolo di un film talmente irresistibile da far nascere, in chiunque lo veda, anche solo per pochi istanti, il desiderio di continuare a guardarlo, per sempre) e nel quale si muove, tra mille difficoltà e decine di altri personaggi, uno più improbabile dell’altro, il giovane Hal Incandenza, studente molto dotato ma con poca voglia di impegnarsi e tennista in erba di buon talento. È lui uno dei più coinvolti nella ricerca dell’originale del film, perno attorno cui ruota il romanzo – ma è bene ribadire che qui la trama classicamente intesa è poco più di un indistinto rumore di fondo – e non potrebbe essere altrimenti considerato che il regista di questa letale forma di intrattenimento, nella quale recita Joelle Van Dyne, la Più Bella Ragazza di Tutti i Tempi, costretta a nascondere il proprio splendore (o forse una terrificante deformità) dietro un velo, è suo padre, James Incandenza, uno dei massimi esperti di fisica ottica.

Splendida, incalzante avventura, Infinite Jest è un romanzo densissimo, che a più riprese regala sorprese ed emozioni. Che non stanca mai e che, una volta concluso, diventa parte di noi.

Eccovi l’inizio. Buona lettura.

Siedo in un ufficio, circondato da teste e corpi. La mia postura segue inconsciamente la forma della sedia. Sono in una stanza fredda nel reparto Amministrazione dell’Università, dei Remington sono appesi alle pareti rivestite di legno, i doppi vetri ci proteggono dal caldo novembrino e ci isolano dai rumori Amministrativi che vengono dall’area reception, dove poco fa siamo stati accolti io, lo zio Charles e il Sig. deLint.

Sono qui dentro.

All’altro lato di un grande tavolo in legno di pino che splende alla luce del mezzogiorno dell’Arizona tre facce sono materializzate sopra giubbotti sportivi leggeri e Windsor a mezze maniche. Sono tre Decani – Ammissione, Affari Accademici e Affari Atletici. Non so attribuire le facce.

Credo di sembrare un tipo normale, forse perfino simpatico, anche se mi hanno consigliato di apparire il più normale possibile, e di non provare nemmeno a fare quella che a me parrebbe un’espressione simpatica o un sorriso.

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