Recensione di “Il posto delle bacche” di Evgenij Evtusenko
L’epilogo, con l’immensità dello spazio spalancata dinanzi allo sguardo orgoglioso e sperduto dell’uomo; il misterioso, ipnotico scintillare di miliardi di stelle che invita a riflettere sul mistero della creazione e sulla fioca ma caparbia luce gettata dalla scienza su quell’oscurità che ovunque è compagna di tutto ciò che vive, respira e pensa; il pulsare tumultuoso, così simile al forsennato galoppare del cuore di un neonato, del pianeta, la sua bellezza quasi indicibile, lo schiudersi, agli occhi, al cuore, all’anima e all’intelletto di colui che la contempla, del suo grembo generoso, di quella natura, insieme ospitale e matrigna, la cui è essenza è più impenetrabile di quella del cosmo infinito.
Dalla volta celeste dell’epilogo, cavalcata, come fosse un destriero, con dolcezza ed entusiasmo, dall’eroico astronauta Gagarin, esempio e modello per la Russia e il mondo, uomo mite il cui sorriso gentile nasconde tanto le sue personali sofferenze quanto il suo continuo indagare i perché ultimi dell’esistenza; il suo senso, il suo scopo, quel che è necessario fare per esistere con dignità – “Ciolkovskij l’aveva detto proprio bene: «Tutte le nostre conoscenze – passate, presenti, future – non sono nulla nei confronti di ciò che non sapremo mai». Questo non è triste: è meraviglioso. Quando esiste l’infinito dell’inconcepibile, la stessa conoscenza può sperare nell’infinito. Anche l’uomo ha una simile speranza, perché l’uomo è conoscenza che conosce se stessa. La ragione suprema dell’universo non è una cosa distinta dall’uomo. L’uomo ne è una parte. Forse addirittura la principale” – al romanzo, la cui storia fiorisce dentro un’altra immensità, in qualche misura simile, quantomeno per i pensieri e i sentimenti che ispira, alla nera vastità trapunta d’astri del cielo: quella della taiga siberiana.
Qui risplende di verità e bellezza Il posto delle bacche di Evgenij Evtusenko (In Italia pubblicato da Einaudi nella traduzione di Vera Dridso), a un tempo racconto di vita, o per dir meglio mosaico di vite, e incessante riflessione sull’essere vivi, su tutto ciò che comporta la responsabilità di esserci, di esistere. E qui, nel silenzio vigile di alberi secolari, le parole degli uomini si confondono con il frusciare dell’erba, con il sommesso gorgogliare delle acque dei fiumi; qui le persone, unite alla terra che abitano da un’identità di sostanza alla stesso tempo ideale e reale (“Hanno sempre deportato in Siberia la gente migliore, figlia… – diceva Ivan Kuz’mic a Ksjuta. Il siberiano si riconosce a una versta di distanza proprio perché la nostra terra si è impregnata dello spirito di quella gente migliore. E qualsiasi terra si mantiene non grazie agli uccelli migratori da «buon giorno – arrivederci!», ma grazie alla gente stabile. Ecco, tu e io siamo siberiani stabili, figlia. Non siamo neppure abitanti di villaggio, ma di podere. E tutta la Siberia è cominciata con poderi isolati. Ivan Kuz’mic prendeva in mano un rametto di fragole della taiga, ne aspirava meditabondo l’aroma.”), quasi inconsapevolmente, eppure con piena lucidità, riscoprono ciò che sono facendosi testimoni e giudici di se stessi.
Nell’affrontare la fatica di ogni giorno, nell’improvviso schiudersi dei ricordi, nell’insopprimibile bisogno di riandare a quel che è stato per illuminare ciò che è, i protagonisti del magnifico e straordinariamente intenso lavoro del grande poeta e scrittore russo – il delegato per le bacche Tichon Tichonovic, Grisa, autista di scalcinati camion reso rude più dal timore dei sentimenti che prova che da un autentico disprezzo per il palpitare del suo spirito innocente, Nikanor Sergeevic, anziano raccoglitore di funghi che nel corso dei suoi lunghi anni, venati d’amarezza, ha avuto modo di capire quanto il vero sia materia multiforme e come tale debba essere oggetto di una continua ricerca, fatta tanto di analisi minuziose quanto di sorprendenti epifanie, di intuizioni immediate (“A dirla onestamente, non mi piacciono i figli che non sono grati ai padri, ma io stesso sono ben poco grato al mio. Poco grato perché mi ha educato nella paura. Lui pensava che la paura fosse la migliore maestra. Sì, la paura insegna, ma cosa insegna? A sottometterti a cose sulle quali non sei d’accordo. E se ti sottometti a cose che odi e disprezzi, così facendo tu stesso diventi ciò che disprezzi […]. I bambini vanno tenuti in una paura sola: quella della coscienza. Questa paura è, per così dire, una paura coraggiosa. Quando i bambini saranno diventati adulti, e la vita vorrà incutergli paure vigliacche, sbatterà dentro di loro contro la pura coraggiosa come contro un muro, e arretrerà…”), Sereza Lacugin, giovane geologo che ancora non si è completamente affacciato all’esperienza del mondo e dei suoi tranelli, non si limitano a rappresentare, narrandolo, il presente e il passato di un Paese; il loro discutere si apre all’universalità, ai temi eterni, ai quesiti ultimi per i quali non esiste risposta ma cui pure non è lecito sottrarsi. Perché nell’affrontare l’enigma di quel che siamo non facciamo altro che accettare il fatto di essere vivi.
Romanzo di commovente dolcezza e di non comune profondità, Il posto delle bacche è una lettura indimenticabile; malgrado nella seconda parte e nel prologo che conclude l’opera, quando l’autore allarga il proprio sguardo e dalla taiga si spinge in altri luoghi del mondo (fino a toccare il Cile di Allende alla vigilia del colpo di stato militare di Pinochet), la prosa perda mordente e un po’ si sfilacci in un sentimentalismo quasi di maniera, l’architettura complessiva resta solida, capace di moltiplicare indefinitamente l’eco delle sue parole, dono prezioso per ciascuno di noi.
Eccovi l’inizio. Buona lettura.
«Nel cielo di mezzanotte volava un angelo…». Il cosmonauta ricordò queste parole, sorrise malinconicamente e pensò: «Io, un angelo?!». La sua faccia voltata verso l’oblò dell’astronave era stanca, non più giovane, ma piena di vivissima curiosità infantile. Il cosmonauta non era mai stato all’estero. E di colpo non esistevano più confini. Sbarre bicolori, strisce arate di terra di nessuno, filo spinato, guardie di frontiera, cani da pastore, dogane, tutto era scomparso. Dal cosmo, la loro esistenza sembrava innaturale, assurda. Molte cose erano diventate inverosimili fino al ridicolo, come ad esempio il termine “permesso di soggiorno”…