Vai al contenuto
Home » Recensioni » Romanzi » Gli uomini mentono troppo

Gli uomini mentono troppo

Recensione di “Pantomima per un’altra volta” di Louis-Ferdinand Céline

 

Louis-Ferdinand Céline, Pantomima per un’altra volta, Einaudi

L’attesa nervosa e il precipitarsi della fuga, l’esilio e la cattura, il carcere e la degradazione, e infine il ritorno in patria, il cerchio che finalmente si chiude e che proprio nel momento in cui si chiude viene scardinato dalla memoria, dal risentimento, dalla vendetta, dall’allucinazione, dal bisogno insopprimibile, dalla vitale necessità di scrivere storie per riscrivere la storia.


«Nel fondo di questa miseria si forma un libro nonostante tutto […]. La ricamatura del Tempo è musica […]. Io sono ai ricordi…»; l’oscurità dell’oggi è una linea d’ombra, un passaggio quasi invisibile, inavvertito al mondo, dal quale erompono i fuochi d’artificio di un passato brandito con selvaggio orgoglio, come fosse lo scalpo di un nemico vinto – “Ferro per ferro! Alé! Guardia! e tutta la lama, e a fondo! pettorale! dove che eravate all’agosto ’14?… ridomando!… no nelle Fiandre?… né Charloroi?…» – e assieme a esso il fiammeggiare osceno, lo scandalo violento di una condizione vissuta come suprema ingiustizia e denunciata a piena voce, urlata, esposta nuda agli occhi di tutti come il vile accanimento del trionfatore nei confronti del vinto: «Oh ma mica solo che la pellagra al ciuffo del culo! L’Articolo 75 e la Sbarra! quattro mandati annullati, rimessi su! […]. Voi mi fare cagare con Brasillach! Ha manco avuto il tempo di raffreddarsi, l’hanno fucilato a caldo! Me, è l’imputridimento di anni qua in questo buco con le otarie a destra, sinistra, di fronte, che io tollero no! I sorveglianti coi fischietti neppure! Più l’Hortensia e i suoi lazzi! Anche così decaduto qua come sono è mica sopportabile, raccontabile! A meno di ridere, beninteso!».

E allora ecco il riso evocato che si fa ghigno, che si fa maschera mostruosa, che tramuta il reale in incubo non per negarlo ma per affermarlo con ancora più convinzione, per congelarlo e consegnarlo ai lettori in quella che è la sua natura più autentica: ciò che è, è grottesco, deforme, malato, maleodorante e putrido perché è figlio legittimo di un’umanità battezzata nella menzogna, nell’interesse, nella violenza, nella brutalità sconcia dell’egoismo, nella perversione dell’“io sono, io voglio” gridata a squarciagola come ultima parola, come inappellabile sentenza.

Così il delirio, lo scrivere tumultuoso, forsennato, implacabile, inarrestabile, il rincorrersi delle parole, il loro inciampare le une nelle altre, il loro fondersi per dar vita ad altro, a un suono puro che sembra non rimandare a nulla e invece è l’essenza, il nucleo, la verità ultima di ciò che indica, di quel che chiama in causa ed evoca, non è che l’unica forma possibile di espressione per qualcosa di così terribile, per un orrore talmente profondo da essere irraggiungibile dal nostro linguaggio comune, semplicemente troppo oltre le capacità della nostra koiné. È dunque forgiato nella lingua stessa, nella sua necessità di darsi un corpo, di farsi materia, Pantomima per un’altra volta, forse il romanzo più duro e disperato di Louis-Ferdinand Céline, lo scrittore sublime e il traditore del suo Paese, il medico dei poveri e il cantore entusiasta della barberie hitleriana, di più, il collaborazionista privo di scrupoli cui spetta il più esemplare dei castighi. Alle accuse che gli sono state rivolte e alle sofferenze che hanno causato, Céline dedica questo romanzo-non romanzo, questo diario privato di dolori che ha l’affanno dell’invettiva e la lucida puntualità di una contro-requisitoria. Lanciata a briglia sciolta, la febbrile fantasia dell’autore trasforma in un carnevale demoniaco quel che è come ciò che è stato, gli avvenimenti consegnati alla storia dei popoli (come la Grande Guerra, nella quale Céline si distinse) come le personali ossessioni di un uomo ferito a morte ma ancora pronto a combattere, a non arrendersi alla muta di sciacalli che da ogni parte lo circonda, ma la sua lente deformante non si allontana mai troppo dai fatti, non si azzarda a distorcerli fino al punto di renderli irriconoscibili.

Certo, quel che egli offre alla vorace, morbosa, curiosità del lettore, non è che la propria versione dei fatti (del resto, cos’altro potrebbe essere?), una strenua autodifesa dominata da quella fiera assenza di pentimento propria di colui che non ha nulla da rimproverarsi e dalla dignità intoccabile di chi ha sempre saputo affrontare in prima persona le conseguenze delle proprie scelte, vestita da capo a piedi dell’armatura della verità e della giustizia, incarnate da chi scrive, paladino sacrificato sulla croce dalla miope, meschina malvagità dei vivi, pronti in ogni stagione a sedere a fianco di chi vince, ad afferrare l’opportunità favorevole e a tenersela stretta. Certo, non può non far girare la testa l’iperbole céliniana che si ostina a riunire in un unico, rivoltante insieme che nulla ha di umano il consesso dei suoi avversari (con in testa Sartre, autore del livoroso j’accuse Portrait de l’antisémite) e a rivendicare per sé la più assoluta innocenza, né è possibile (e tantomeno lecito) lasciarsi affascinare dalla grandezza dello scrittore, dal dirompente splendore della sua prosa, dalla sua capacità di reinventare, più che il romanzo, il linguaggio stesso, fino al punto di rinunciare a riflettere sui suoi errori; e tuttavia, Louis-Ferdinad Céline, scrittore giustamente immortale, tanto nella tutt’altro che perfetta Repubblica delle Lettere quanto nella quotidianità che tutti ci contiene, abita più nelle sue opere che nei suoi giorni. È nelle pagine che ha scritto che egli risplende e vive; lì quel che egli è stato, al di là di qualsiasi eccesso autoassolutorio e dell’orgasmo rabbioso del contrattacco che niente e nessuno risparmia, emerge con evidenza, con una chiarezza che non ammette equivoci. E la sua eredità è senza alcun dubbio un dono.

Eccovi l’incipit dell’opera. Lo splendido lavoro di traduzione, per Einaudi, è di Giuseppe Guglielmi, autore anche di un importante saggio conclusivo. Buona lettura.

Ecco Clémence Arlon. Abbiamo la stessa età, pressappoco… Che stranezza di visita! In questo momento!… No, non è strano… Lei è venuta nonostante gli allarmi, le interruzioni di metrò, le strade sbarrate… e da così lontano!… da Vanves… Clémence viene quasi mai a trovarmi… suo marito neppure, Marcel… è mica venuta sola, suo figlio l’accompagna, Pierre…

1 commento su “Gli uomini mentono troppo”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *