Recensione di “Era estate a quel tempo” di Nicoletta Verzicco
Il canto di sirena della terra e del mare, il richiamo irresistibile della bellezza, l’abbacinante splendore di luoghi che sono insieme tempo e spazio, perché è attraverso loro che spazio e tempo respirano, accogliendo nel loro grembo il disordinato procedere dell’uomo.
La perfezione, impossibile da comprendere, di una natura accondiscendente e buona, colma di misericordia e pazienza, che senza sosta si offre alla curiosità di chi l’avvicina e silenziosa racconta la propria storia, il suo lento, millenario procedere inciso nelle rughe ocra dei contrafforti e delle pianure, segnato dai contorni inconfondibili degli ulivi, robusti e umili, scandito dallo slancio prepotente dei fichi d’india, capaci, quasi fossero incantesimi, di germogliare dalla sterilità della roccia. Qui, in una Puglia descritta con trascinante entusiasmo e nel medesimo tempo con pudore, con puro desiderio e con modestia, con una specie di timoroso rispetto costantemente tramutato, nelle raffinate sfumature di una prosa leggera eppure densissima di significato, in una forma d’amore contemplativo che sfiora la devozione, è ambientato Era estate a quel tempo di Nicoletta Verzicco, dolente romanzo psicologico e racconto di viaggio sospeso tra passato e presente.
Filo rosso di un narrare all’apparenza placido, incline alla descrizione del particolare, all’attenzione verso gli stati d’animo, alla cura dei dettagli minimi e tuttavia significativi per la costruzione dei caratteri, è la memoria, l’atto stesso del ricordare, che inestricabilmente si intreccia con vite vissute delle quali si conosce poco o nulla e che vengono riportate alla luce tanto per merito di una sapiente opera di ricostruzione documentale (e di ricerca dei testimoni) quanto grazie all’accendersi della fantasia e dell’immaginazione, che moltiplicando ipotesi su ipotesi finisce per dare vita esistenze alternative, a seconde e terze possibilità che hanno quasi il sapore di una rivincita, di una ripicca giocata all’oblio che tutto inghiotte nel proprio nero ventre.
E a ricordare è Maria Luisa, indiscussa protagonista del lavoro di Nicoletta Verzicco; una donna (l’autrice non dice molto altro di lei, ma il lettore, pagina dopo pagina, impara a conoscerne il coraggio, la fierezza e la ritrosia, così come il suo intenso bisogno di darsi al prossimo) spinta dal bisogno di far finalmente luce sulle proprie origini, di comprendere una volta per tutte chi sia, chi siano stati i suoi genitori e i suoi nonni, e di risolvere il mistero che è alla base del suo fortissimo legame con la terra di Puglia e con la città di Lecce in particolare, talmente piccola da far sì che sconosciuti si incontrino più e più volte in poche ore e finiscano per stringere amicizia dopo un solo giorno trascorso tra quelle vie e quelle piazze uniche per fascino e cultura e malgrado ciò talmente grande, talmente immensa da essere crocevia di vite che nulla sembrano avere in comune le une con le altre. In Puglia, a Lecce, in un’estate tanto calda da essere spietata, Maria Luisa, quasi senza volerlo, si ritroverà al centro di un’incredibile serie di coincidenze (che il caso o il destino le disegnano attorno come tela di ragno) che la porteranno a scoprire, tra paura e meraviglia, sconvolgenti parentesi del suo passato (e con esso di quello della sua famiglia e di altri fino a un attimo prima creduti estranei).
Alla luce di tutto quello che viene a sapere, Maria Luisa è costretta a vedersi sotto una luce nuova; sconosciuta a se stessa, questa donna che ha finito per perdersi definitivamente nell’esatto momento in cui si è ritrovata, trova rifugio nella scrittura. Autrice di romanzi (né è questo il solo punto di contatto che è possibile intuire tra il personaggio del libro e Nicoletta Verzicco, anche se la scrittrice evita accuratamente qualsiasi possibile parallelismo tra sé e la protagonista del libro), Maria Luisa decide di raccontare tutto ciò di cui è venuta a conoscenza, ed è a questo punto che il romanzo di Verzicco cambia nuovamente pelle, divenendo creatura metaletteraria. Il viaggio e il romanzo psicologico si fondono dunque nel riassunto della cronaca di ciò che il lettore già conosce; e in questo modo è il lettore stesso a divenire testimone della metamorfosi di Maria Luisa, che affida alle pagine scritte tutto il peso delle rivelazioni che le sono state fatte per poter di nuovo tornare libera, per essere ancora in grado, forse per un’ultima volta, di riprendere possesso di se stessa.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Maria Luisa si era scoperta investigatrice. Pochi anni addietro aveva sentito fortemente il richiamo della sua terra, lei che tantissimo tempo si era creduta apolide.