Recensione de “I racconti di Canterbury” di Geoffrey Chaucer
“I ‘Canterbury Tales’ (che il Chaucer ideò intorno al 1387) costituiscono la vasta e multiforme epopea della società medievale inglese, colta nel periodo in cui questa stava passando dal feudalesimo all’organizzazione nazionale. Tale trasformazione, che aveva avuto inizio assai prima della nascita del poeta e si sarebbe compiuta molto tempo dopo la sua morte, fu affrettata durante il corso della sua vita da profondi rivolgimenti politici ed economici.
Mentre la guerra dei cento anni con la Francia […], incominciata come guerra dinastica e feudale, andava assumendo un carattere etnico e «imperialista», una spaventosa epidemia di peste colpiva l’Inghilterra: in soli tre mesi […] la popolazione del regno venne ridotta da quattro a due milioni circa. In una società in cui di solito il mutare delle condizioni di vita era molto lento, le conseguenze economiche d’uno spopolamento così rapido si fecero sentire ancor più […]. Durante questo periodo di grandi mutamenti nella struttura della società, ebbe inizio in Inghilterra un movimento religioso precorritore della riforma protestante. La Chiesa, che aveva civilizzato il paese insegnando ai ricchi la carità e ai potenti la moderazione, era stata a sua volta corrotta dalla ricchezza e dalla potenza […].
L’unità dell’Europa medievale, garantita dalle consuetudini feudali, dalla cavalleria e dalla cristianità romana, si stava dunque spezzando, e l’Inghilterra era fra i primi paesi europei che andavano rapidamente acquistando coscienza della propria autonomia nazionale […]. Curioso e aperto non solo al passato rivelato dai libri, ma anche ai problemi del suo tempo, il Chaucer ebbe la fortuna di poter conoscere paesi stranieri e, nell’ambito della sua patria, tutte le classi sociali […]. Gli scrittori suoi contemporanei colsero tutti qualche aspetto della realtà del loro tempo: l’ignoto autore del ‘Sir Gawayne’, i riti del mondo cavalleresco; il Langland, lo sdegno della classe contadina di fronte agli abusi dei governanti e alla corruzione del clero; il Wycliffe, l’ardore religioso che avrebbe aperto la via al protestantesimo. Ma ognuno di essi aveva un obiettivo particolare, una passione polemica dominante, che toglieva alla loro visione chiarezza e lungimiranza. Lo sguardo del Chaucer, invece, era limpido, imparziale e aperto; sensibile al sarcasmo ma anche alla simpatia, alla grazia e all’umorismo […]. La società che i ‘Canterbury Tales’ ci presentano è ancora suddivisa nelle categorie feudali dei ‘bellatores’ (coloro che combattono), degli ‘oratores’ (coloro che pregano) e dei ‘laboratores’ (coloro che lavorano), corrispondenti alle tre classi della cavalleria, del clero e del popolo comune. Ma queste tre classi sono riunite in un unico gruppo di pellegrini in viaggio verso Canterbury: la nazione inglese appare per la prima volta nella sua unità di razza e cultura”.
Nella sua ricca nota introduttiva a I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, Ermanno Barisone inquadra con identica precisione tanto il contesto sociale, politico ed economico nel quale l’opera nasce e prende forma (e con esso, naturalmente, il suo scopo) quanto il suo “peso specifico” letterario, due aspetti tra loro inestricabilmente intrecciati. Narratore superbo, intrattenitore dall’irresistibile fascino, e ancora predicatore dotato di non comune efficacia persuasiva, instancabile cantore della bellezza dell’amor cortese e insieme compiaciuto (e abilissimo, va da sé) dispensatore di novelle che nulla hanno a che vedere con la virtù e l’edificazione personale, Chaucer, nel vestire di volta i volta i panni dei personaggi che mette in scena (fra i quali non manca lui stesso) e nel divenirne voce offre un quadro d’insieme del suo tempo che ha la magnificenza e la precisione di un affresco e all’interno di esso si diverte a collocare l’uomo (dunque tutti gli uomini) al posto che compete loro. Dispettosa e geniale divinità letteraria, Geoffrey Chaucer si affida alla spietata trasparenza della verità; le virtù e i vizi quasi sovrumani messi in mostra dai protagonisti delle storie raccontate (che solo in qualche caso presentano somiglianze con coloro che ne narrano le gesta, un eterogeneo gruppo di persone in viaggio verso Canterbury per una vista alla tomba dell’arcivescovo Thomas Becket), non sono che uno strumento, un “espediente tecnico” per regalare ancor più mordente a ciò che si offre all’attenzione e all’ascolto del pubblico; lungi dal rappresentare un esempio o un modello, dunque, questi sentimenti, che paiono tendere senza sosta all’assoluto, si rivelano per ciò che sono (una piacevolissima finzione) sia nei momenti in cui la storia termina e i pellegrini si trovano a commentare ciò che hanno appena ascoltato, esibendo, quasi senza rendersene conto, le proprie comunissime meschinità, sia nei bruschi cambi di tono della narrazione, quando a un racconto dal tono drammatico ne segue uno brillante, segnato da ironia pungente e doppi sensi e nel quale l’amore è concupiscenza e la fedeltà solo un caparbio lottare per la conquista dell’oggetto dei propri desideri.
Maestri dell’inganno e della dissimulazione devoti esclusivamente al proprio tornaconto personale, gli eroi de I racconti di Canterbury nulla hanno di eroico: sono uomini, in eterno uguali a se stessi (e in quest’unico senso sì, archetipi) in un mondo che vertiginosamente cambia, e che Chaucer ritrae con impareggiabile talento.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
Quando Aprile con le sue dolci piogge ha penetrato fino alla radice la siccità di Marzo, impregnando ogni vena di quell’umore che ha la virtù di dar vita ai fiori, quando anche Zeffiro col suo dolce fiato ha rianimato per ogni bosco e ogni brughiera i teneri germogli, e il nuovo sole ha percorso metà del suo cammino in Ariete, e cantano melodiosi gli uccelletti che dormono tutta la notte a occhi aperti (tanto li punge in cuore la natura), la gente allora è presa dal desiderio di mettersi in pellegrinaggio e d’andare per contrade forestiere alla ricerca di lontani santuari variamente noti, e fin dalle più remote parti d’ogni contea d’Inghilterra molti si recano specialmente a Canterbury, a visitare quel santo martire benedetto che li ha soccorsi quand’erano malati.