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Il cinema e la svastica

Recensione de “La violetta del Prater” di Christopher Isherwood

Christopher Isherwood, La violetta del Prater, Adelphi

Isherwood è «leggero», con le sue mani stilistiche incredibilmente affusolate non stringe, non maneggia, non tocca, al più sfiora, allude, si mostra costantemente distratto, dimentico, e tuttavia è attento, crudelmente, minutamente attento alle rapide apparizioni che attraversano la sua arguta distrazione. Trascrittore di voci, Isherwood ama i dialoghi veloci e insensati, le conversazioni un po’ sciocche, ma dense di allusioni frivole e inquietanti: comiche tragedie.


La violetta del Prater si apre con una serie di incantevoli conversazioni, in primo luogo telefoniche; nelle quali il telefono collabora con il suo gusto perverso per l’equivoco, le battute vuote, le stizze irragionevoli; ciarle che corteggiano il nonsense, forse inutili, forse colme di una drammatica intensità, forse non succederà niente, forse da quelle battute mal giustapposte nascerà una storia, una esile trama […]. La violetta del Prater è il titolo di un film, di cui, in modo discontinuo, apprenderemo la trama; si potrebbe dire che il romanzo è il racconto del farsi del film, ma sarebbe una definizione troppo didascalica; diciamo che il racconto è ambientato negli studi di una società cinematografica inglese, e che è in corso la lavorazione di un film di quel titolo sotto la regia di un «Socrate ebreo», il tedesco Bergmann. L’insieme degli studi, dal punto di vista del narratore, potrebbe definirsi «apparato tecnico inteso alla produzione di allucinazioni di durata limitata e acquistabili a prezzo ragionevole»”.

Con queste parole Giorgio Manganelli, nella postfazione al delizioso romanzo di Christopher Isherwood La violetta del Prater (in Italia pubblicato da Adelphi nella traduzione di Giorgio Monicelli), intende illustrare non tanto il tema di questo specifico lavoro dello scrittore inglese quanto ciò che caratterizza l’opera nel suo complesso, e cioè un equilibrio perfetto tra un’apparente leggerezza (a tratti spinta oltre il proprio limite, a sfiorare l’inconsistenza, lo scherzo fine a se stesso o una sorta di autosufficiente raffinatezza che ha il sapore agrodolce di uno sterile narcisismo) e una non comune capacità d’analisi e di penetrazione della realtà, tradotta in una prosa che giunge al lettore talmente distaccata dai fatti da sembrare indifferente a ciò che racconta ma che in realtà è coinvolta – o per dir più esattamente travolta – da tutto ciò che accade, e dunque ne è allo stesso tempo testimone e partecipe.

Come ben scrive ancora Manganelli, “In realtà, la materia, la storia del film non ha alcuna importanza; quel che conta è che nel film si celebra il trionfo dell’ombra, dell’allucinazione, del delirio […]. In una lontana, apparente, feroce realtà, accadono eventi atroci; la Germania nazista celebra il processo per l’incendio del Reichstag, in Austria la guerra civile distrugge le milizie operaie; si fucila, si impicca. Bergmann, il regista, ha la famiglia in Austria, e sa che la guerra sta arrivando, una guerra orrenda; tutti lo sanno, ma nessuno ci crede […]. La grande strage si prepara con la stessa competenza tecnica con cui si prepara il film”.

Così, il romanzo di Isherwood si fa canto e controcanto; senza sosta si muove da una narrazione brillante, lieve, in più di un momento apertamente comica, a una cronaca così precisa e lucida di quel che succede nel mondo da essere già esatta profezia di quel che sarà, di un’Europa messa a ferro e fuoco dal delirio di onnipotenza hitleriano, straziata in ogni dove da massacri e genocidi. Senza muoversi dalla Londra oziosa, elegante e tragicamente distratta che ospita il film – un film, è bene non dimenticarlo, la cui trama è a dir poco esile, una commediola tutta ingenuità e buoni sentimenti – e coloro che sono stati chiamati a scriverlo e girarlo, Isherwood lascia che il suo sguardo oltrepassi il miope e colpevole isolamento geografico e politico inglese per osservare l’approssimarsi della tempesta; in questo modo egli può puntare il dito in direzione dell’orrore che a gran velocità si avvicina e cercare di svegliare dal torpore un’opinione pubblica disattenta, o forse addirittura vile, che si illude di fuggire le preoccupazioni semplicemente evitando di pensarle.

Al presente fragile e fondamentalmente insincero, menzognero, così ben rappresentato dall’industria cinematografica, Christopher Isherwood contrappone (senza mai farlo esplicitamente ma lasciando che l’opposizione prenda vita da sé, dal semplice atto di raccontare) la concretezza della realtà e la sua oscura complessità, riflesse in quello che è, a un tempo, il personaggio principale del romanzo e la sua chiave di lettura, il regista Friedrich Bergmann, ebreo austriaco, lavoratore instancabile e geniale, simbolo tanto di un intero continente prossimo a sprofondare nell’abisso quanto di una tenace resistenza alla barbarie, di una difesa strenua dell’uomo e della sua insopprimibile nobiltà.

Piccolo, perfetto gioiello letterario, La violetta del Prater è una favola e il suo opposto, una commedia e il suo contrario, una tragedia che non vuole rinunciare al lieto fine, un sogno e il suo cupo risveglio; è l’infinito della fantasia creatrice e il disegno compiuto in ogni dettaglio di ciò che è, che non è possibile fuggire ma che non per questo si è obbligati ad accettare.

Eccovi l’incipit, buona lettura.

«Parlo col signor Isherwood?». «In persona». «Proprio il signor Christopher Isherwood?». «Sì, sono io». «È da ieri pomeriggio, sa, che cerchiamo di comunicare con lei». La voce all’altro capo del filo aveva una punta di rimprovero. «Ero fuori». «Era fuori?». La voce non sembrava del tutto convinta. «Sì». «Ah… capisco». Una pausa, come per considerare il fatto. Poi, con improvviso sospetto: «Eppure, è strano… Il suo numero era sempre occupato… Continuamente». «Ma chi è lei?» chiesi spazientito. «Imperial Bulldog». «Come, scusi?». «L’Imperial Bulldog Pictures, la casa cinematografica. Le parlo a nome del signor Chatsworth… A proposito, lei si è trovato per caso a Blackpool nel 1930?». «Ma qui ci deve essere un errore…». E mi accinsi a riattaccare. «Non sono mai stato a Blackpool in vita mia».

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