Recensione di “La regola dei pesci” di Giorgio Scianna
Non un giallo e neppure un mystery. Un romanzo d’avventura, forse, e di formazione, ma non soltanto questo. Qualcosa che può apparire come una sorta di confessione ma che in realtà non è che un urlo lanciato verso il nulla, una resa, un abbandono, la consapevolezza di una frattura non colmabile, di una distanza che niente può più ridurre. Nulla, neppure l’amore. La scomparsa di quattro ragazzi, quattro studenti liceali appena diventati maggiorenni, con la quale si apre l’intenso romanzo di Giorgio Scianna, La regola dei pesci, è un tuffo vertiginoso in un mondo che, pur essendo in qualche misura anche il nostro mondo, ci è quasi completamente sconosciuto. La scrittura semplice e diretta dell’autore, che immediatamente conduce la narrazione in medias res, con la sparizione che è un dato di fatto acquisito e la voce narrante (quella di uno dei ragazzi scomparsi, che un giorno, per ragioni che verranno svelate nel corso della storia, fa ritorno a casa) che ne racconta la genesi, l’antefatto e infine la messa in opera, la sua realizzazione concreta, ha la virtù rara della sincerità e, quel che più conta, una preziosissima nobiltà. Scianna, infatti, non narra per giudicare e neppure per denunciare o per lanciare grida d’allarme – il suo piuttosto, come ben spiega nella nota posta a conclusione del romanzo, è un sussurro d’angoscia, ma ancora una volta ciò che illumina questo sussurro, quel che gli dà la forza di essere voce, è la capacità dell’autore di tramutare il suo bisogno, la sua urgenza, finanche la sua paura in uno stimolo alla ricerca di un perché, di una ragione – ma per tentare di comprendere.
Fin dal principio, dunque, egli rinuncia a tutto ciò che sarebbe d’intralcio al suo scopo; non ricorre alle fin troppo facili soluzioni offerte da situazioni familiari problematiche, né guarda (come inevitabilmente accadrebbe se il suo lavoro fosse una finzione che strizza l’occhio alla cronaca e non una finzione che una realtà sempre più aberrante e che sempre più ci sfugge di mano è ormai in grado di creare da sé, facendone qualcosa di concreto) a contesti sociali difficili, dove e prevalere sono miseria, ignoranza e brutalità.
Niente di tutto questo. I ragazzi di Giorgio Scianna, gli inseparabili amici diciottenni la cui vita, fino a un certo punto, è identica a quella di ogni altro loro coetaneo e che d’improvviso decidono di abbandonare tutto e sparire, sono rampolli di un nord Italia benestante sereno che sembra non avere preoccupazioni di alcun genere; le loro famiglie sono normali, e al loro interno nulla manca di ciò che è importante (non il denaro, non la cultura, non l’affetto), eppure è come se niente di ciò che è necessario ci fosse davvero. Così Lorenzo, l’unico dei quattro a essere tornato (senza tuttavia mai essere tornato davvero), in questa sua veste è tanto colui che costruisce il romanzo raccontando come si siano svolte le cose quanto il simbolo di quel gruppo di adolescenti talmente lontani da quelli che dovrebbero essere il loro tempo e la loro comunità di riferimento da sentirsi attratti da qualcosa di lontanissimo e incomprensibile e che tuttavia ai loro occhi appare vestito della bellezza pura dell’idea, o meglio dell’ideale. A lui Giorgio Scianna dona, attraverso una prosa piena di commovente sensibilità, la limpida complessità dell’adolescenza; come uno specchio le sue pagine ne riflettono le incessanti contraddizioni, e come un’eco ne restituiscono il respiro disordinato, fatto di rapiti entusiasmi e di ostinati silenzi, di lealtà d’acciaio in grado di resistere a qualunque urto e di ingenuità che hanno il sapore agrodolce di una fiaba per la quale nessuno scriverà mail il lieto fine.
Ben oltre il semplice divario generazionale che separa i genitori dai figli, superata la soglia dello scorrere del tempo, del passare degli anni che cancella qualsiasi possibile continuità tra i primi e i secondi, che rende del tutto inutile per chi ora è figlio l’esperienza di chi un tempo lo è stato e oggi ha la responsabilità e il dovere di essere padre e madre, il romanzo di Scianna guarda senza distrazioni a un presente d’ombra e d’incubo, nel quale il vero nemico da combattere è l’assenza di un domani. Come scrive l’autore nella già citata nota riportando le parole di uno psicologo: «A questi ragazzi stiamo togliendo non solo il futuro, ma l’idea stessa di futuro, qualsiasi speranza per cui valga la pena darsi da fare. E senza futuro, senza nulla da perdere, rischiano di diventare una minaccia, non solo per se stessi. Questa storia ci riguarda tutti».
Eccovi l’incipit del romanzo, pubblicato da Einaudi. Buona lettura.
In fondo alla classe ci sono quattro banchi vuoti. Uno è il mio. Non ne posso più degli occhi puntati, della raffica di domande che non mi danno tregua. Voglio solo che mi lascino in pace. Provo una vergogna buia per quanto ho fatto e di certo non lo rifarei più. Tutto qua. Ecco quello che volevate sentire. Tanto non potete capire.