Recensione de “L’impostore” di Javier Cercas
Chi è davvero Enric Marco? Un meschino impostore che per decenni ha indossato un passato tragico che non gli apparteneva al solo scopo di acquisire notorietà, farsi benvolere da quante più persone possibile, ottenere importanti incarichi in istituzioni altrettanto importanti ed essere considerato un eroe?
O forse, come l’immortale Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, non è altro che un uomo, un anonimo Alonso Chisciano che un bel giorno, toccati i cinquant’anni, decide di reinventare il proprio passato non solo per poter scrivere in piena libertà quello che sarà il suo futuro ma soprattutto perché stanco del baratro di uniforme grigiore nel quale sono sprofondati i suoi anni migliori? E se invece di essere Alonso Chisciano Marco fosse addirittura Cervantes? Se fosse un romanziere, il più ardito dei romanzieri, il più coraggioso dei sognatori, colui che non si accontenta di costruire una finzione ma compie il passo decisivo e decide, quella finzione, di viverla, di farla sua, di trasformarla in verità?
Chi è davvero Enric Marco? Un bugiardo patologico o un artista? È un ingannatore, un manipolatore, una persona spregevole e senza scrupoli che non ha esitato a impossessarsi di una delle più sanguinose pagine della nostra storia recente (le persecuzioni naziste ai danni del popolo ebraico, lo sterminio di milioni di essere umani innocenti) per soddisfare il suo bisogno di attenzione e considerazione, oppure è qualcosa di completamente diverso, un uomo certamente colpevole di aver distorto la verità e alterato i fatti ma le cui scelte, deprecabili solo a prima vista, nascondevano fini nobili? La cronaca dice che Marco è un impostore, qualcuno che ha finto per quasi trent’anni di essere un sopravvissuto della barbarie hitleriana, che ha raccontato di aver superato a prezzo di immani sacrifici i rigori del campo di concentramento di Flossembürg (e prima del nazismo di aver contrastato con ogni mezzo il franchismo, partecipando giovanissimo alla guerra civile nelle file dell’esercito repubblicano e poi opponendosi, armato solo della sua fede socialista nell’uguaglianza e nella giustizia, alla dittatura trionfante) ma che in realtà non ha fatto nulla di tutto ciò (o che, nella migliore delle ipotesi, non lo ha fatto che in minima parte).
Smascherato dallo storico Benito Bermejo, Enric Marco – che nei panni del fiero deportato antifranchista era arrivato addirittura a presiedere la Amical de Mathausen, l’associazione che riuniva i sopravvissuti spagnoli ai campi di sterminio – o per dir con più esattezza la sua figura così contraddittoria e per molti versi inesplicabile, al centro violenti pettegolezzi, serrate inchieste giornalistiche e di ogni sorta di attacco personale (ma anche sostenuta, difesa e supportata da più parti), diventa il personaggio principale del bellissimo “romanzo senza finzione” di Javier Cercas intitolato L’impostore. Alla ricerca non tanto della verità ma di Enric Marco, di colui che mentì in modo così spudorato (e dunque del perché scelse di farlo, della ragione o delle ragioni che lo spinsero a farlo, che lo condussero fino al punto di violare la memoria collettiva di un genocidio), Cercas costruisce molto più di una biografia, si spinge più lontano di qualsiasi ricostruzione storica (non importa quanto documentata), giunge più in profondità di qualsiasi analisi psicologica.
Alle prese con un libro che per molto tempo si è rifiutato di scrivere (per motivi che elenca al principio del romanzo e che per il lettore rappresentano la principale chiave interpretativa del suo lavoro), Cercas, autore che in più di un’occasione si è interrogato sul rapporto tra verità e finzione, trova nel “caso Marco” una sorta di vertigine che allo stesso tempo lo attrae e lo respinge. Perché comprendere Marco, scoprirlo senz’altro fine che non sia la scoperta stessa, la comprensione intesa come presa di coscienza, significa superare il fatto e ogni sua contingenza per coglierne l’essenza. Così Cercas, senza mai cessare di essere romanziere sublime, si fa documentarista nell’accuratezza delle sue ricerche, storico nel far rivivere il recente passato del suo Paese e insieme politico nell’intransigente lucidità dei giudizi che a quel passato riserva, e ancora filosofo e psicologo e “investigatore” nel suo incessante domandarsi e domandare chi e cosa rappresenti Marco (e chi e cosa sia realmente) tanto per coloro che così a lungo ha ingannato quanto per lo scrittore Cercas e per l’uomo Cercas.
Nello scorrere di una biografia che mescola individuo e collettività e che dalla Spagna, dal microcosmo dei quartieri di Barcellona, si allarga fino a comprendere l’Europa, a toccare la Germania (nazione che, al principio del secondo conflitto mondiale, accolse Marco come lavoratore e che lui trasformò nella porta del suo immaginato inferno) per poi sfiorare altri luoghi ancora che, per quanto indirettamente, sono entrati a far parte della “vicenda Marco” (che pagina dopo pagina muta sempre più in qualcosa che potremmo definire la “vicenda di Marco e Javier”, un gioco di specchi, o se si svuole una sfida tra consumati scacchisti la cui posta in gioco è quel fragilissimo universo di convinzioni, ideali, sentimenti e valori che va sotto il nome di etica, o di morale), Cercas esplora il cuore umano con una radicalità che lascia senza fiato, forte di un’onesta intellettuale e di una fedeltà al suo lavoro di scrittore che sono (e sempre dovrebbero essere) il tesoro più autentico della letteratura.
E come sempre accade a coloro che non pretendono di esaurire il viaggio nell’atto di viaggiare, la verità che Cercas raggiunge al termine del suo meraviglioso e tragico L’impostore è un rinnovato punto di partenza. Oltre Marco, certo, ma sempre nel segno di Marco, l’eroe bugiardo, il Don Chisciotte che mai soffrì a Flossembürg.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Guanda, è di Bruno Arpaia. Buona lettura.
Io non volevo scrivere questo libro. Non sapevo esattamente perché non volessi scriverlo, oppure lo sapevo ma non volevo riconoscerlo o non osavo riconoscerlo; o non del tutto. Il fatto è che per più di sette anni mi sono rifiutato di scrivere questo libro. Durante quel periodo ne ho scritti altri due, anche se questo non l’avevo dimenticato: al contrario: a modo mio, mentre scrivevo quei due libri, scrivevo anche questo. O forse era questo libro che a modo suo scriveva me.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.