Recensione di “L’ombra delle armi” di Hwang Sok-yong
Una guerra combattuta per obbligo, affrontata da subordinato, vissuta giorno dopo giorno non da alleato ma da semplice sottoposto, non è che un’ombra di guerra, un dovere assolto controvoglia. Una guerra combattuta in questo modo non è solo l’orrore dei massacri e l’insensatezza di un odio che viene insegnato senza poter mai essere spiegato, è il velo squarciato sulle sue reali motivazioni, è la realtà infetta della sopraffazione feroce e della morte, della violenza a ogni costo che scalza la retorica tragicomica dell’eroismo, del conflitto scoppiato per il trionfo dell’idea.
Una guerra, questa guerra, la guerra delle seconde file, di chi, vivo, non ha il diritto di mangiare alla stessa mensa di un commilitone proveniente da un altro Paese, e morto neppure quello a una degna sepoltura, l’atroce guerra del Vietnam, è quella che racconta lo scrittore sudcoreano Hwang Sok-yong nel suo L’ombra delle armi (pubblicato in Italia da Baldini Castoldi Dalai Editore nella traduzione di Vincenza D’Urso) attraverso le vicende dei suoi protagonisti; da una parte il suo dichiarato alter ego, il caporale dell’esercito coreano An Yonggyu, che dopo aver provato l’incubo della giungla, il terrore nervoso della prima linea a tu per tu con le milizie irregolari vietcong, viene promosso investigatore della polizia militare e si ritrova nell’inestricabile groviglio cittadino di Da Nang, incaricato di indagare sui traffici del mercato nero, che coinvolgono praticamente tutti i belligeranti e gran parte della popolazione civile; dall’altra la persona cui l’autore attribuisce il proprio pensiero su quel che accade in Vietnam, il giovane studente di medicina Pham Mihn, che, stanco della spaventosa situazione in cui versa il suo Paese, decide di abbandonare tutto per abbracciare le ragioni della resistenza incarnate dal Fronte di Liberazione Nazionale.
Intorno a loro, nel mosaico costruito da Sok-yong lungo quasi 800 pagine, è un brulicare di esistenze (anch’esse d’ombra) dove a prevalere è sempre l’interesse personale, dove la sola cosa importante sembra essere la corsa forsennata all’arricchimento, l’accumulo compulsivo di beni e denaro, la lezione americana del successo a tutti i costi – con il contrabbando e la corruzione diffuse a ogni livello, e, laddove la moneta non riesce ad arrivare o ad attecchire, con le esecuzioni di massa e i bombardamenti a tappeto con il napalm che radono al suo interi villaggi e immense porzioni di giungla lasciando al loro posto soltanto polvere e sterile terra – mandata perfettamente a memoria dagli attori coinvolti: “Cos’era un PX? La soffitta dello zio Sam. Un vecchio che in mano tiene un pugnale romano e nell’altra uno scudo su cui è incisa la frase: «America, la nazione più vasta e più grande del mondo». Era la versione moderna dell’emporio presente nel forte della cavalleria, frequentato da prostitute, ministri di culto e contrabbandieri di armi, che collaboravano a trasformare le popolazioni indigene in ridicole marionette, continuando senza sosta a intossicarle e a imporre loro di sperimentare nuove frontiere dell’oscenità. Il PX portava anche la civiltà nei malsani pendii dell’Asia, dove altrimenti la gente avrebbe continuato a vivere felice e contenta nutrendosi di sole banane e riso. Ti insegnava a lavarti con il sapone al latte, a soddisfare e rinfrescare il tuo animo con il gusto della Coca-Cola, riempiva le baracche semidistrutte dalle bombe di profumi, biscotti dai colori dell’arcobaleno, gocce di zucchero, négligé decorati di merletti, costosi orologi da polso e anelli con pietre preziose incastonate. Il formaggio faceva la sua comparsa sulle tavole imbandite dell’Asia, e i preservativi scivolati fuori dalle cosce delle ragazze danzavano sulle dita esili dei bambini”.
Con la lucidità del testimone e l’onestà limpida del cronista, Hwang Sok-yong narra il Vietnam che ha conosciuto (l’autore servì come militare durante il conflitto); nella sua prosa non c’è spazio per nulla che sia bellezza letteraria fine a se stessa, alla ricchezza descrittiva egli preferisce la spiegazione dettagliata dei meccanismi che regolano il mercato clandestino e all’inutile dibattito ideologico sulla guerra e le sue cause la forza delle proprie convinzioni. Sok-yong dunque prende posizione, una posizione netta, e rivendica senza sosta la sua scelta, che è tanto narrativa quanto politica; il suo non è un romanzo di finzione, e per sottolinearlo non esita a intervallare le vicende che narra con la ricostruzione di alcuni massacri realmente avvenuti; nel far questo, lo scrittore coreano si astiene da ogni giudizio e lascia che sia la spaventosa nudità dei fatti, riportati con fredda, burocratica puntualità, a imprimersi nella mente e nel cuore del lettore.
Romanzo, ricostruzione, memoria, denuncia, opus magnum, L’ombra delle armi è, nella sterminata messe letteraria dedicata alla guerra del Vietnam, qualcosa di unico; è un grido di dolore e un frullare d’ali di speranza, è un viaggio nell’abisso e un canto solenne di libertà e giustizia.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Dall’altra parte del fiume il pesante bombardamento del pezzo da 105 continuava incessante. Ma era l’unico rumore a rompere la calma circostante. Sulla deserta distesa di sabbia, interrotta di tanto in tanto da gruppi di cactus e grovigli di filo spinato, non si vedeva null’altro che l’accecante, bianca luce del sole.