Recensione di “Fatherland” di Robert Harris
Il Terzo Reich ha vinto la guerra, il genio militare di Hitler ha avuto ragione di ogni avversità, di ogni nemico, e il popolo tedesco ora domina il Vecchio Continente. A est, nella Russia quasi completamente soggiogata, tenaci sacche di resistenza danno ancora filo da torcere alle armate germaniche, ma si tratta ormai di ultimi fuochi, anche se questi fuochi ardono ormai da vent’anni. Il Terzo Reich ha trionfato; il nuovo ordine nato per vivere il proprio destino millenario ha cominciato il suo cammino. È il 1964, e il mondo intero ha compreso che è necessario tributare alla Germania l’onore e il rispetto che merita, che nessuna ostilità è più possibile; è il 1964 e gli Stati Uniti d’America, fino a questo momento lontani, diffidenti, guardinghi, si decidono per un’apertura: una visita ufficiale a Berlino del loro Presidente, Joseph Patrick Kennedy, un incontro al vertice con Adolf Hitler: “In armonia con il documentato desiderio del Führer e del Popolo del Reich della grande Germania di convivere nella pace e nella sicurezza con i paesi del mondo, e in seguito ad ampie consultazioni con i nostri alleati della Comunità Europea, il ministero per gli Affari Esteri del Reich, a nome del Führer, ha invitato oggi il presidente degli Stati Uniti d’America a visitare il Reich della grande Germania per colloqui personali destinati a promuovere una maggiore comprensione fra i nostri due popoli. L’invito è stato accettato. L’amministrazione americana ha comunicato questa mattina che Herr Kennedy intende incontrarsi con il Führer a Berlino in settembre. Heil Hitler! Viva la Germania!”.
Lungo il filo della storia e poi nel labirinto di quel che sarebbe successo se le cose fossero andate in modo diverso da come si sono svolte davvero (se Heydrich non fosse morto nell’attentato subito a Praga, se la Wermacht fosse riuscita a sconfiggere l’Armata Rossa, decretando il successo dell’Offensiva Barbarossa, se i tedeschi avessero scoperto che il codice dei loro messaggi era stato decifrato e l’avessero modificato per tempo, riuscendo a ingannare i nemici e a sbaragliarli), Robert Harris dà vita a Fatherland, un romanzo che si legge d’un fiato – e che non a caso, al momento della sua pubblicazione, nel 1992, fu salutato da uno straordinario successo di pubblico – e che mescola abilmente giallo, storia d’amore e analisi politica. Nei panni del protagonista del suo lavoro, l’investigatore della squadra omicidi della polizia criminale di Berlino Xavier March, cittadino del Reich rispettoso delle leggi ma tiepido quanto a entusiasmo nazionale e patriottismo, poliziotto tenace e capace ma ridotto allo stremo da un matrimonio fallito e da un rapporto a dir poco problematico con il proprio figlio, lo scrittore e giornalista inglese tesse una trama intricata, dove di continuo i fatti documentati e la fantasia creatrice si incontrano, scivolando senza fratture gli uni nell’altra.
In questo modo le riflessioni critiche di March, i suoi dubbi, le sue resistenze alla trionfale retorica pubblica che instancabile celebra la potenza tedesca e la saggezza della sua guida politica (incarnata, oltre che dal Führer, dal suo fedelissimo braccio destro Goebbels), trovano appiglio in ciò che il lettore conosce, nei fatti come si sono svolti, nell’orrore indicibile dello sterminio del popolo ebraico che la vittoria sul campo ha permesso di tenere nascosto e che è, in questo 1964 di fantasia e nello stesso tempo così vicino al vero, alla realtà, da far rabbrividire, il segreto più delicato e pericoloso dell’invincibile Germania. Come in ogni giallo che si rispetti, la narrazione comincia con un cadavere (il morto è Josef Buhler, un importante gerarca di partito), ma subito la prospettiva si allarga; dapprima sembra che l’indagine sul ritrovamento del corpo, affidata a March, sia semplicemente al centro di un conflitto tra diversi organi dello Stato (a pretendere la titolarità del caso è la Gestapo, e in particolar uno dei suoi più alti esponenti, Odilo Goblocnik, con il quale March a più riprese si scontra), ma poco alla volta si scopre che in gioco c’è ben più di una disputa sull’attribuzione del caso. E mentre l’inchiesta si fa più serrata, altri attori entrano in gioco; il capo della polizia Nebe, eminenza grigia in possesso di informazioni di vitale importanza e burattinaio privo di scrupoli, e soprattutto la giornalista americana Charlotte Maguire, che aiuterà March – con il quale finisce per avere un’appassionata relazione – a scoprire cosa davvero si nasconda dietro la prima morte (e alle altre che l’hanno seguita), e quanto il Reich tutto, in ogni suo rappresentante, sia disposto a sacrificare per mantenere il silenzio su ciò che non può in alcun modo essere detto.
Impeccabile nello stile, nella chiarezza e nella fluidità della prosa, puntuale nella ricostruzione, perfetto nella gestione della tensione e dei colpi di scena, solido nel disegno e nella caratterizzazione dei personaggi, sempre in equilibrio tra realtà e finzione, Fatherland è molto più di un semplice romanzo d’evasione o di una storia avvincente. Se ancora non l’avete fatto, leggetelo, ne resterete conquistati.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Mondadori, è di Roberta Rambelli. Buona lettura.
Nubi pesanti avevano gravato su berlino per tutta la notte, e indugiavano ancora in quello che passava per mattino. Alla periferia occidentale della città, sprazzi di pioggia scorrevano come fumo sulla superficie del lago Havel.