Recensione di “Solomon Gursky è stato qui” di Mordecai Richler
Pur padroneggiando con consumata maestria la tecnica narrativa, Mordecai Richler sembra non stancarsi mai di mettere alla prova il proprio talento, di sfidarlo. Con spregiudicata naturalezza d’acrobata, la sua prosa corre sul filo sottilissimo che separa forma e contenuto; da entrambi gli elementi distilla l’essenza (quasi fosse un chimico, o per dir meglio un alchimista, nelle cui formule scienza, magia e sogno hanno la medesima importanza) e dà loro unità e compiuta espressione nella forma del romanzo.
Esteta convinto, dotato di un gusto squisito per l’ordine, l’armonia e la musicalità della scrittura, Richler ne insegue l’intrinseca perfezione ricorrendo spesso all’espediente (ambiguo ma infallibile) del dettaglio ricercato, del ricamo stilistico, del calcolato effetto a sorpresa. L’opera in cui questa sua caratteristica risalta con maggior forza è forse Solomon Gursky è stato qui, splendida saga familiare (ma anche racconto d’avventura, romanzo di formazione, originalissimo diario di viaggio) che abbraccia due secoli e cinque generazioni di una dinastia ebrea.
Lavoro di ampio respiro – 600 pagine che quasi non ci si accorge di leggere, tanto lieve, coinvolgente, fascinosa e diabolicamente furba è l’affabulazione di Richler – Solomon Gursky è stato qui possiede il ritmo travolgente e la fantasia di uno spettacolo pirotecnico e quasi in ogni pagina regala un colpo di scena, un evento inaspettato, un capovolgimento di fronte. Vivificato da un’ironia tanto garbata e sottile quanto pungente, il romanzo offre al lettore una galleria di caratteri di impressionante ricchezza; nel disegnarli, modellandone con precisione chirurgica pregi, difetti, inclinazioni, sentimenti e dettagli fisici, Richler si conferma psicologo finissimo, lucido e disincantato.
E tuttavia, alle manchevolezze, ai vizi, all’innocenza irrimediabilmente perduta dell’essere umano non guarda con rancore, bensì con una specie di franco cameratismo.
La fratellanza nel peccato, sembra dirci Richler, se non è ciò che ci definisce come uomini, contribuisce comunque (e in massima parte) a renderci quel che siamo. Tutti, senza eccezione, a partire proprio dall’eroe del suo romanzo, quel Solomon Gursky che nell’architettare la più grande delle beffe non esita a mettere sul piatto la propria vita. “Perché la miglior vendetta possibile è vivere due volte. Magari tre”.
Ora spazio all’incipit del romanzo. Buona lettura.
Un mattino – durante la memorabile ondata di freddo del 1851 – un grosso, minaccioso uccello nero, del quale in passato non si era mai visto l’eguale, si librò sopra la rude cittadina mineraria di Magog, nei pressi della frontiera con il Vermont, lanciandosi in continue picchiate. Luther Hollis abbatté l’uccello con il suo Springfield. Poi gli uomini videro un tiro di dodici cavalli uggiolanti emergere dai mulinelli di neve del lago Memphremagog, completamente ghiacciato. I cani trainavano una lunga slitta stracarica, alla cui guida sedeva, facendo schioccare una frusta, Ephraim Gursky, un uomo piccolo, dall’aria feroce, incappucciato. Ephraim raggiunse la riva e si mise a camminare con fatica su e giù, scrutando il cielo. Dal fondo della gola gli uscì un grido inumano, un suono triste e secco, insieme desolato e pieno di speranza. Nonostante il freddo che spaccava gli alberi, alcuni curiosi si radunarono sulla riva del lago. Erano venuti non tanto ad accogliere Ephraim, quanto per stabilire se fosse o no un’apparizione. Ephraim era vestito con quelle che parevano pelli di foca. E un’ispezione più ravvicinata rivelò anche un colletto da sacerdote. Dai bordi della pelle più esterna pendevano quattro frange, ciascuna formata da dodici cordoncini di seta. Palpebre e narici erano coperte di brina, una guancia annerita dal morso del vento. Dalla barba nero inchiostro spuntavano ghiaccioli.