Recensione de “La ferrovia sotterranea” di Colson Whitehead
L’idea di un inferno, di un luogo oltremondano di dolore, sofferenza e umiliazione nel quale espiare in eterno peccati e malvagità commessi in vita, presuppone, prima ancora di quella (al tempo stesso vendicativa e consolatoria) di giustizia, un’altra idea; quella che vede, nella spaventosa galleria di atrocità compiute dagli esseri umani ai danni del loro prossimo, gradi differenti di orrore, variazioni, per così dire, della “qualità” dell’abominio perpetrato.
In quest’ottica, per esempio, picchiare qualcuno risulta meno grave che ucciderlo, mentre, sempre restando in tema, picchiarlo a sangue, cioè ridurlo in fin di vita a forza di botte, è qualcosa di peggio di una “semplice” scarica di pugni e calci. Se dunque esistono diversi tipi di peccato di cui ci è possibile macchiarsi, ne consegue che anche le relative punizioni saranno commisurate; ed ecco l’inferno così come lo conosciamo, una bilancia precisa e implacabile sui cui piatti tutto torna in equilibrio.
Ma cosa succede quando le più diverse forme di sopruso, i vari livelli di violenza fisica e psicologica, le torture, gli stupri, in una parola le più sconvolgenti invenzioni partorite da mente umana per infliggere quanto più tormento possibile a uomini, donne e bambini, spogliati della loro dignità di persone e ridotte a oggetti, a cose, a niente più che un anonimo possesso, del quale si ha la libertà di disporre a proprio piacimento, cessano di essere un fitto arcipelago di nefandezze indipendenti tra loro per farsi espressione di un unico, terribile, modo di agire e di essere? Quel che succede in questo caso è la schiavitù, forse la più perfetta forma di sfruttamento e sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Ed è la schiavitù il tema de La ferrovia sotterranea, romanzo di Colson Whitehead diventato in breve tempo un caso letterario anche grazie ai due prestigiosissimi premi vinti: il Premio Pulitzer per la Narrativa e il National Book Award.
Whitehead ambienta il suo lavoro nella Georgia del primo Ottocento, ma il suo sguardo, fin da subito, si allarga, e dai confini della piantagione di cotone, dove la storia comincia, spazia lungo le strade di un’America che ha tanto la sfumata dolcezza di un sogno quanto il cupo grigiore di un incubo. È un Paese, quello che ci consegnano le pagine di Whitehead, sospeso sul ciglio di un abisso, una terra che testarda ignora se stessa e il sangue innocente che la nutre, un colosso d’argilla che, per legittimare lo statu quo, a corre a rifugiarsi nella maestà di Dio e di un “diritto” che nasce dal suo silenzio, quel silenzio che permette che si compia ogni ingiustizia possibile in nome della legge non scritta del più forte, in nome di un fato in qualche misura già compiuto, perché se davvero le cose dovessero essere altro da come sono nella realtà, una realtà che ha visto l’uomo bianco sterminare prima i pellerossa, poi impadronirsi di tutto ciò che apparteneva loro e infine trionfare e arricchirsi grazie al lavoro dei neri resi schiavi, allora, semplicemente, sarebbero diverse. L’uomo bianco non avrebbe dominato se non fosse stato destinato a farlo. Sorretto da una prosa fluida, che ha il merito non secondario di non indulgere al raccapriccio, di saper descrivere con attenzione e puntualità le condizioni di vita dei neri e quelle dei loro persecutori bianchi senza cedere alle sirene della spettacolarizzazione, Whitehead si fa monito e memoria d’America, nazione fondata sull’arbitrio; nel procedere del racconto egli alterna le figure dei protagonisti (su tutti, la giovane eroina Cora, schiava fuggiasca) ai luoghi del suo peregrinare in cerca di salvezza, simbolo e metafora di un Paese diviso, lacerato, che ogni giorno di più si avvicina alla Guerra Civile, alla battaglia per la libertà autentica di tutti, alla battaglia per un nuovo inizio: la Carolina del Sud, la cui manifesta buona accoglienza riservata alla popolazione di colore nasconde intenzioni pessime, e quella del Nord, dove a trionfare è il cupo sarcasmo dei dominatori, che vedono nella caccia senza quartiere dei neri e nella loro impiccagione la sola via verso la libertà e la definitiva emancipazione dei “diversi”, degli “inferiori”, il Tennessee, terra di nessuno dominata dallo spettro della morte, che imparziale falcia bianchi e neri, l’Indiana, fragile laboratorio di dignità e rispetto, e infine il Nord, entità spirituale più che luogo geografico, New York e il Canada, terre promesse dei sogni dei neri prima ancora che delle esistenze piagate di coloro che, a prezzo di indicibili sacrifici, ce l’hanno fatta.
Romanzo di “testimonianza” e d’avventura, romanzo senza alcun dubbio prezioso, ma più per le finalità che si prefigge che per intrinseca qualità letteraria, La ferrovia sotterranea, che fin dal titolo richiama la sola invenzione narrativa (l’idea, appunto, di una ferrovia sotterranea gestita clandestinamente dagli abolizionisti e offerta come via di fuga agli schiavi che trovavano il coraggio per abbandonare le loro insostenibili prigioni a cielo aperto), la sola licenza che l’autore si è concesso, è un romanzo il cui reale valore risiede nel tema trattato; il modo in cui Colson Whitehead sceglie di svolgerlo e di offrirlo ai lettori è diligente, ordinato, ma nulla più. A lettura ultimata, quel che resta non è il respiro delle locomotive che viaggiano nel verminoso ventre d’America con il loro carico di umanità decisa a non perdere se stessa, ma la fotografia di una realtà che è il nostro comune passato e in qualche oscuro modo anche il nostro presente. E forse è per questo, per essere intuizione dell’ineludibile attualità del male, che il romanzo di Whitehead è stato premiato. Una scelta che se di sicuro non è un male, qualche dubbio, a livello squisitamente letterario, non può non lasciarlo.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Sur, è di Martina testa. Buona lettura.
La prima volta che Caesar propose a Cora di scappare al Nord, lei disse di no. Era sua nonna a parlare.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.