Recensione di “L’Arminuta” di Donatella Di Pietrantonio
E se non esistesse una stagione per la verità? Se nessuna età fosse mai abbastanza matura per riceverla né abbastanza forte per sopportarla? Se la verità, così nobile e bella, così pura e lucente da essere, come la virtù, premio a se stessa, fosse, proprio a motivo della sua perfezione, destinata a non poter camminare tra gli uomini, a non poter essere tra loro, che ne sarebbe di lei?
Che ne sarebbe di questo preziosissimo tesoro, condannato a vagar ramingo in pensieri inespressi, in confessioni mute, in segreti sepolti in labirinti di finzioni, in vicoli ciechi di buona educazione, in imbarazzanti girotondi di giustificazioni? Che ne è di colei che viene ripudiata? Se non esistesse stagione per la verità, esisterebbe comunque la verità, e con essa germoglierebbe, come da un grembo fecondato, la necessità di darle vita, tramutarla in parola, darle concretezza. Ma a quale verità si può essere preparati a soli tredici anni? Alla più atroce, quella che cancella ogni illusione, che spazza via ogni innocenza e a forza trascina quel che è ancora in divenire, l’anima acerba di una bambina, nella storpia fissità di quel che si è fatto adulto senza mediazione alcuna, come per un colpo ricevuto d’improvviso.
Così, fin dalle prime righe del suo intenso e lacerante L’Arminuta, risponde Donatella Di Pietrantonio, autrice di un romanzo meritatamente diventato un caso letterario, raccontando la storia di una bambina che da un giorno all’altro vede evaporare, quasi fosse un sogno, tutto ciò che fino a un momento prima aveva conosciuto e amato e che rappresentava per intero il suo mondo: una famiglia attenta, presente e sollecita, piacevoli abitudini, amicizie, la routine della scuola, dei pomeriggi divisi tra il dovere dei compiti e la spensierata libertà del gioco, l’appuntamento, carico di aspettative, delle vacanze estive. Tutto questo, in un istante, scompare, come se non fosse mai esistito, come se si fosse trattato di una luce di lampadina accesa dalla pressione di un dito su un interruttore. Basta esercitare la medesima pressione in senso opposto perché quella luce cessi di esistere e al suo posto, in una frazione di secondo, arrivi il buio a saturare lo spazio. Per la giovanissima arminuta, colei che ritorna, è esattamente questo che accade; la sua vita viene cancellata senza che nessuno le spieghi il perché, senza che nessuno si preoccupi di quel che ha perso, di ciò che ricorda, del dolore che le viene inflitto e per il quale non pare esistere colpa da imputarle, o rimorso che lei possa scagliare con rabbia contro se stessa; e a lei, la fragile ma combattiva protagonista del romanzo, non resta che adattarsi alla nuova situazione, reinserirsi da estranea, da straniera, in quella che è la sua famiglia d’origine, imparare i ritmi e i modi del vivere contadino, educarsi alla lingua sporca del dialetto, stringere nuovi legami, accettare il suo sangue nello stesso modo in cui, senza vuote cerimonie ma con sincerità tanto ruvida quanto piena, il suo sangue l’ha ripresa con sé.
Ma cosa c’è di più difficile per una bambina che chiamare famiglia la propria vera famiglia, dalla quale è stata separata subito dopo la nascita per divenire figlia di un’altra madre e di un altro padre che anni più tardi, inspiegabilmente, hanno deciso di allontanarla? Cosa c’è di più arduo, per una bambina, che rinunciare alla memoria, nella quale riposa un’intera esistenza? Come respingere l’abbraccio tenero del passato quando il presente è così squallido e cupo? E Donatella Di Pietrantonio, con commovente sensibilità e attraverso una prosa dura e selvaggia ma anche ricca di dolcezza, e densissima nelle sfumature di sentimento, narra pagina dopo pagina – senza mai perdersi in inutili dettagli ma restando addosso alla sua eroina, dando voce agli spasmi del suo corpo e al tremore afflitto del suo spirito, facendosi eco del suo orgoglio ferito, e sussurro del suo timido dolore, e furente disperazione, e accarezzando d’affetto tutto quel che di nuovo, passo dopo passo, ella impara a conoscere – il nuovo viaggio di questa bambina, la sua rinnovata scoperta di sé, che conduce anche al disvelamento di quel che i “grandi”, nell’esercizio troppo spesso arbitrario dei loro “diritti”, fanno, incapaci di comprendere (o forse soltanto troppo pigri per volerlo fare davvero) quanta sofferenza riposi nel palmo di una mano tesa in una carezza, in un saluto pronunciato a fior di labbra, in un abbraccio che significa “addio”.
Se ancora non l’avete fatto, leggete L’Arminuta, è un romanzo che non dimenticherete facilmente.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
A tredici anni non conosco più l’altra mia madre. Salivo a fatica le scale di casa sua con una valigia scomoda e una borsa piena di scarpe confuse.