Recensione di “A sangue freddo” di Truman Capote
Chi sono davvero Perry Edward Smith e Richard (Dick) Eugene Hickock? Secondo la giustizia americana due assassini senza scrupoli che la notte tra il 14 e il 15 novembre del 1959, a Holcomb, Kansas, penetrarono a scopo di rapina – una cinquantina di dollari in tutto il magro bottino – nella fattoria della famiglia Clutter e dopo aver legato tutti i componenti della famiglia (il padre, la madre e due dei loro figli presenti, Kenyon e Nancy; le altre due figlie, Beverly ed Eveanna, più grandi d’età, non vivevano già più con i genitori) li uccisero brutalmente. Secondo Truman Capote, che di questo atroce delitto, delle indagini che ne seguirono e soprattutto dei due responsabili raccontò in quello che probabilmente è il suo lavoro più celebre, A sangue freddo, dettagliato resoconto giornalistico mescolato a racconto, la coppia di criminali è qualcosa di molto simile a un rompicapo, un tragico mistero che abita una regione dai confini indistinti, una terra d’ombra e sofferenza i cui cittadini sono tanto le umane miserie dell’infanzia negata, dell’alcolismo e dell’indifferenza, quanto le dure condizioni materiali imposte dalla povertà e le insidie invisibili ma eccezionalmente potenti rappresentate dalla malattia mentale, dalla dissociazione psicotica della personalità, dal delirio della schizofrenia paranoide.
Sebbene Capote presenti fin dal principio la sua narrazione come un’opera di non-fiction, una ricostruzione nella quale nulla è inventato, lasciato alla creatività raffinata ma del tutto inutile (anzi, in questo specifico caso addirittura dannosa) del romanziere, del “costruttore di storie” – “Tutto il materiale di questo libro”, scrive l’autore, “non derivato da mia osservazione diretta o è stato preso da registrazioni ufficiali o è il risultato di colloqui con le persone direttamente interessate, e molto spesso di tutta una serie di colloqui che si sono protratti per un tempo considerevole” – A sangue freddo non può semplicemente essere rubricato come una ricostruzione dei fatti. All’interno di questa vicenda sanguinosa e feroce, infatti, Truman Capote si muove con una grazia e un’attenzione che lasciano stupefatti; egli, pienamente coinvolto in ciò che è accaduto al punto da poter essere considerato quasi uno degli attori principali dell’eccidio (e delle sue conseguenze), racconta quasi in un sussurro, guardando a tutti i protagonisti (le vittime, i loro carnefici, gli investigatori, gli altri abitanti della piccola e anonima Holcomb, le famiglie di Perry e Dick) con pietà, sforzandosi di comprendere, di fare luce, lasciando spazio alle domande, agli interrogativi tormentosi ed evitando le fin troppo facili scorciatoie delle risposte emotive, dei giudizi affrettati, delle radicate convinzioni, dei preconcetti.
Prendendo le mosse dai giorni (o meglio dalle ore) che precedono il quadruplice omicidio per poi seguire i binari paralleli della fuga dei colpevoli (che presto diviene un girovagare privo di qualsivoglia razionalità) e del febbrile lavoro di investigazione volto alla loro cattura, lo scrittore americano si sofferma sulle persone, ne traccia con cura i ritratti psicologici, scava nelle motivazioni di ciascuno, ne esplora le paure, ne percorre le indecisioni, i tentennamenti, si accosta al formicolare della loro vita interiore e in assoluto silenzio ne ascolta tutte le voci, i rochi sussurri come le urla; ed è esclusivamente attraverso ciò che riesce a far emergere (dai dialoghi, dalle confessioni, dalle riflessioni, dai tentativi di trovare un perché, un senso a quel che è successo) che egli dà forma ai fatti.
Non c’è spazio per l’interpretazione personale nelle quasi 400 pagine che Capote consegna al lettore; in esse, oltre al palpitare dei sentimenti, delle emozioni, la sola cosa a risaltare è la spaventosa concretezza dei fatti, la casualità malata che porta la morte laddove, fino a un momento prima, c’era soltanto la vita con le sue promesse, il filo sottile del fato, che nessuna Parca tesse, il cui cieco dipanarsi conduce a un beffardo crocicchio d’Edipo che ha il rassicurante disegno di una dimora domestica chi non ha nessuna colpa e chi ha deciso che il prossimo dovrà “pagare per tutti, per tutto quello che c’è stato fino a quel momento”.
Dolente odissea dell’assenza di senso, A sangue freddo è una lettura indimenticabile, un lavoro colmo di una sincerità e di un’onestà talmente cristalline da riuscire quasi insopportabili; è un viaggio verso ciò che della verità (di qualsiasi verità) possiamo toccare che della letteratura ha lo splendore e della nuda parola la forza primordiale.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Garzanti, è di Mariapaola Ricci Dèttore. Buona lettura.
Il villaggio di Holcomb si trova sulle alte pianure di grano del Kansas occidentale, una zona desolata che nel resto della stato viene definita «laggiù».
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.