Recensione de “La vita agra” di Luciano Bianciardi
Un virulento pamphlet, una satira dura, potente, inarrestabile, un fiume in piena di indignazione, un’acutissima commedia umana, un romanzo di denuncia sociale, un racconto autobiografico che lascia poco spazio all’invenzione e all’immaginazione. La vita agra di Luciano Bianciardi sfugge a ogni facile definizione e si presta a molteplici interpretazioni; quasi fosse dotata di una sensibilità propria, l’opera muta al mutare della sensibilità del lettore; si svela con cautela, con una sorta di sostenuta timidezza.
Nasce dal traumatico intrecciarsi del talento immenso di uno scrittore e del carattere sanguigno e vivo di un uomo; dal caotico sovrapporsi della sua fede imperfetta e fragile – eppure cocciuta – nel carattere salvifico della parola e del rifiuto violento, scostante, sdegnosamente volgare di ogni scorciatoia, compromesso, soluzione a buon mercato. La prosa di Bianciardi, naturalmente ricca (di quella ricchezza che è nella cose, e che l’autore si limita a osservare), non crea, non impegna se stessa in sterili compiacimenti, non si sazia della propria immagine allo specchio; descrive, registra e annota. Misura di tutte le esperienze, di tutti i vissuti, del procedere (che spesso, troppo spesso, non è che un penoso arrancare) di un’esistenza, la parola, miracolosa sintesi di opposti, riassume in sé l’oggettività della testimonianza e la dichiarata partigianeria dell’autore che la individua, la sceglie e la fissa sulla pagina.
E così l’uomo Bianciardi, lo scrittore Bianciardi, il giornalista Bianciardi, il Bianciardi fine traduttore di Faulkner, Bellow e Steinbeck, parte di un mondo di cui non si sente parte, affida all’anima multiforme della parola la responsabilità di dar voce all’infinito travaglio della sua anima mortale, ferita dalla solitudine, sfregiata dalla rabbia, fiaccata da una sete di giustizia destinata a restare inappagata. Disincantato esperto d’uomini al pari di Céline, Bianciardi sa che nel mondo in cui vive non c’è spazio né diritto di cittadinanza per la verità. l’amore, il rispetto; neppure per un’ombra, un sottilissimo velo di umanità. La misericordia, in fondo, è solo una perdita di tempo. Egli attraversa a testa alta gli anni d’oro del boom economico italiano e ne segna a dito la mostruosa progenie: intollerabili disuguaglianze sociali, progressiva mercificazione del lavoro (e di chi lo svolge), crescita esponenziale di bisogni indotti, alienazione senza fine. E non si ferma qui, perché ne La vita agra è l’idea stessa di consesso sociale a disgregarsi, a cadere in pezzi nelle morti sul lavoro (al principio del romanzo, Bianciardi sogna di vendicare la strage di un gruppo di minatori, uccisi da una drammatica fatalità), nell’arroganza odiosa del potere, nella prostituzione intellettuale dei professionisti della cultura (giornalisti in primis, mesterianti squallidi e pavidi al servizio esclusivo del proprio interesse), nello smodato desiderio di ricchezza, da cui tutti sembrano contagiati.
Scritto nel 1962, La vita agra stupisce ancora oggi per l’attualità delle sue riflessioni; i temi che squaderna non sono invecchiati, i problemi che pone attendono soluzione, il modello di società che rifiuta è quello nel quale ancora siamo prigionieri. Regalandoci il suo capolavoro, Bianciardi ci ha resi tutti suoi eredi.
Ora la parola all’autore, spiazzante fin dalle prime righe (l’autore si cala nella realtà passando per una dotta analisi etimologica e così facendo chiarisce da subito il legame inestricabile tra cose e parole). Buona lettura.
Tutto sommato io darei ragione all’Adelung, perché se partiamo da un alto-tedesco Breite il passaggio a Braida è facile, e anche il resto: il dittongo che si contrae in una e apertissima, e poi la rotacizzazione della dentale intervocalica, che oggi grazie al cielo non è più un mistero per nessuno. La si ritrova, per esempio, nei diletti del Middle-West americano, e infatti quel soldato di aviazione che conobbi a Manduria mi diceva haspero mostrandomi il ditone della mano destra ingessato, e io non capivo; ma poi non c’è nemmeno bisogno di scomodarsi a traversare l’Oceano, perché non diceva forse Madonna mia quell’altro soldato, certo Merola della compagnia comando, che era nato appunto a Nocera Inferiore? Le altre ipotesi, cioè che all’origine ci sia un basso latino Braida, o un latino classico Praedium, hanno per me interesse minore, e in quanto al significato concordano tutte, comunque. Campus vel ager suburbanus in Gallia Cisalpina. Insomma uno slargo, uno spiazzo vicino all’abitato, un pezzo di verde intra moenia, dove si tenevano le fiere di bestiame e magari ci bazzicavano le prostitute, a notte. Ora, siccome accanto allo spiazzo nostro c’erano le case di un tal Adalgiso Guercio, la gente continuava a dire la Braida del Guercio.
Quanto manca.
Vero
mi viene voglia di rileggerlo ……
Non posso che invitarti a farlo…