Recensione di “Il supplizio del legno di sandalo” di Mo Yan
Il chiavistello del re degli inferi, i 500 tagli, il supplizio del legno di sandalo. Tre diverse tecniche di tortura, atroci fin nel nome, promessa di indicibili sofferenze, sono nel medesimo tempo pretesto e sostanza narrativa dello splendido e terribile romanzo di Mo Yan intitolato Il supplizio del legno di sandalo.
L’autore sceglie di raccontare attraverso una polifonia di voci e un rincorrersi nel tempo di vicende diverse che, come affluenti di un fiume, muovono verso la medesima acqua, rappresentata dalla più brutale e perfetta delle punizioni, quella del titolo. Siamo nella Cina d’inizio Novecento, destabilizzata dal disordine di una dinastia (i Qing) prossima al collasso, in balia dei capricci dell’imperatrice madre Cixi e degli abusi di potere dei suoi funzionari, diventata terra di conquista per le potenze occidentali e attraversata dal vento di ribellione dei Boxer. In questo scenario carico di tragedia si intrecciano le vicende di un magistrato di distretto leale e onesto, rispettoso delle leggi e leale al potere (ma anche alle prese con la propria coscienza, che si ribella a soprusi e ingiustizie), di una giovane donna di umili origini, sposata a un macellaio ingenuo al punto da sfiorare l’imbecillità, del padre di lei, attore di immenso talento e maestro dell’Opera dei Gatti, e del padre di lui, boia del Ministero delle Punizioni giunto ormai al termine della sua carriera, talmente esperto e consumato nell’arte di uccidere i nemici del popolo e dell’impero da essersi meritato la gratitudine dell’imperatrice.
Nel microcosmo del distretto di Gaomi, luogo-simbolo per lo scrittore premio Nobel, che ne fa una sorte di archetipo del Paese intero, queste quattro vite giungono dapprima a incontrarsi e poi a scontarsi, e per una serie di paradossi non infrequenti nella vita ma, si sarebbe portati a credere, quasi impossibili nell’ossessiva gerarchizzazione della società cinese, nella meccanica regolarità burocratica del suo svolgersi, è nel dipanarsi dei destini di queste persone senza importanza, la cui esistenza terrena è ostaggio dell’arbitrio dei funzionari che sovrintendono la cosa pubblica, che riposa la possibilità stessa della sopravvivenza della dinastia al potere. Controcanto letterario del labirinto di eccessi magistralmente costruito da Mo Yan sono i continui passaggi dal dramma alla commedia e dalla rude concretezza del reale all’area delicatezza del sogno, alla libertà sfrenata della fantasia, all’intensità struggente del desiderio; quasi fosse una sorta di grottesco Le mille e una notte il romanzo si offre al lettore come un insieme di storie di volta in volta raccontate (ma sarebbe più esatto dire confessate) dai diversi protagonisti, ognuno dei quali illumina un aspetto della vicenda principale.
Così, i tormenti interiori del magistrato Qian Ding, che sinceramente ama il suo Paese e soffre a vederlo in mano agli stranieri – ai tedeschi in questo specifico caso, impegnati nella costruzione di un tratto ferroviario che sconvolge equilibri e tradizioni millenarie – e proprio per questo non solo non fatica a comprendere l’atto di ribellione dell’attore Sun Bing, che, costretto ad assistere al brutale assassinio di sua moglie e dei suoi due figli piccoli per opera dei soldati tedeschi, si unisce ai Boxer, assalta un magazzino, prende in ostaggio tre militari e li uccide, ma anzi in cuor suo solidarizza con lui, rimproverandosi di non aver sufficiente coraggio per farlo apertamente, sono eco della storia e insieme struggente canto d’amore (perché Quian Ding e Sun Meiniang, la bellissima figlia di Sun Bing, sono amanti), mentre gli immensi patimenti di Sun Meininag raccontano le mille sfumature dell’amore, che si fa pietà filiale nei ricordi agrodolci della ragazza, che a più riprese richiama la figura imperfetta ma comunque insostituibile del genitore (cui cerca in ogni modo di salvare la vita) ed esplode di passione e di vita nella lirica ricostruzione dell’incontro tra i due.
La voce del boia Zhao Jia, suocero di Sun Meiniang, infine, è quella disumana della tirannia, della paura cinicamente utilizzata come strumento per governare; Zhao Jia uccide perché così gli è stato insegnato e ordinato di fare, uccide con perizia, con arte, uccide infliggendo il massimo dolore possibile, perché quello che le alte gerarchie dell’impero vogliono da lui è che egli cessi di essere persona per farsi, nella sua carne prima ancora che nello spirito, strumento principe dell’oppressione. Ecco dunque che egli, pena la perdita della sua stessa vita, per giungere ai massimi onori deve riuscire a uccidere un uomo soltanto dopo avergli tagliato il corpo per 500 volte (la morte deve sopravvenire al cinquecentesimo taglio, non prima, né è tollerato che il condannato sopravviva, anche solo per qualche minuto, all’ultimo colpo di lama) e deve sottoporre l’odiato Sun Bing al complicatissimo supplizio del legno di sandalo: il corpo del vecchio attore divenuto Boxer deve essere attraversato, dall’ano alla base del collo, da un paletto di legno di sandalo e poi issato su un piedistallo; in quella posizione Sun Bing deve vivere per cinque giorni; i suoi occhi dovranno essere aperti e la sua coscienza presente nel momento in cui il treno, maledizione d’Occidente, farà il suo viaggio inaugurale.
Romanzo di non comune splendore stilistico, Il supplizio del legno di sandalo è una potente riflessione sulla violenza, sulla sua natura e i suoi scopi. L’urlo di dolore e di sdegno che in queste pagine lancia Mo Yan è tanto più deciso quanto più la sua penna, con sacrificio, scolpisce con impressionante nitore quella chirurgica perversione dell’umano che sempre è la violenza istituzionalizzata.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Einaudi, è di Patrizia Liberati. Buona lettura.
Quella mattina mio suocero Zhao Jia non si sarebbe mai sognato di pensare che, dopo sette giorni, avrebbe trovato la morte per mano mia, come un vecchio cane fedele al suo dovere.