Recensione di “Il Napoleone di Notting Hill” di Gilbert Keith Chesterton
Abita la dimensione dell’immaginazione e del sogno Gilbert Keith Chesterton; nella sua prosa riverberano il fanciullesco entusiasmo per l’avventura e il desiderio di ridisegnare il reale, il quotidiano, plasmandolo, trasformandone lo spento grigiore nello sgargiante arcobaleno di colori dell’invenzione fantastica, del gioco, dell’intuizione estemporanea che si fa idea, trama, storia compiuta. La narrazione, l’arte sublime del raccontare è, per il grande autore inglese, un rifugio, un riparo dal mondo; attraverso la mediazione salvifica della pagina scritta, che Chesterton utilizza nelle sue varie forme – articolo di giornale, saggio, romanzo, aforisma, pièce teatrale, poesia – egli mantiene intatto quel legame tra vero e verosimile (ma anche tra vero e possibile, probabile, surreale, assurdo) che a ben guardare è una delle caratteristiche distintive dell’opera letteraria. Attenzione, però, perché l’indiretto approccio alle cose – di volta in volta arricchite, “travestite”, riproposte in nuove forme dalla squisitezza del talento, dall’arguzia del motteggio, dalla vis polemica, dalla profondità della riflessione, da un argomentare ipnotico, di serena bellezza, che, al pari di uno spettacolo naturale, invita alla contemplazione, al godimento estetico – non relega Chesterton al marginale ruolo di “cantore di fiabe”, di raffinato “collezionista di fantasie”; è vero, l’autore affronta la realtà sul proprio terreno, nello sconfinato “Paese delle meraviglie” che le sue parole senza sosta rimodellano, ma non per questo la nega, né tenta in alcun modo di stemperarne le asprezze o negarne le brutture. Dal rapporto tra Dio e le sue creature alla critica della società, i suoi temi hanno spesso carattere d’universalità; e Chesterton si schiera, in ogni occasione con grande chiarezza, con coraggio e limpida onestà intellettuale. L’allegoria è semplicemente la sua voce, quel che la rende unica, non un’elegante via di fuga dalle proprie responsabilità. E d’allegoria si veste uno dei suoi più grandi capolavori, Il Napoleone di Notting Hill, pubblicato nel 1904, la cui felicissima genesi, ripresa dall’Autobiografia, viene così riassunta da Sergio Ferreri nella postfazione all’edizione Piemme del volume (splendidamente tradotto da Riccardo Mainardi): “Un giorno, lo scrittore è a passeggio per le vie di Kensington e racconta a se stesso storie di sortite e di assedi feudali, alla maniera di Walter Scott, che cerca di applicare al deserto di mattoni e di calce tutt’intorno. Londra gli sembra ormai «una cosa troppo larga e slegata», persino più larga e slegata dell’Impero Britannico. Ma all’improvviso, il vago senso di divisione, di frantumazione e di smarrimento che indoviniamo in lui, è cancellato dalla visione di alcune piccole, antiquate botteghe illuminate. All’inizio prova sorpresa e piacere, poi si diverte all’idea che esse soltanto andrebbero preservate e difese, e infine è invaso dalla pienezza della gioia, quando scopre che oltre alla bottega del farmacista, del libraio, del droghiere e dell’oste – «tutto quanto è essenziale per un paese civile» – c’è anche una bottega di cose vecchie e rare, piena di spade e alabarde. A quel punto la via, dominata dalla torre-serbatoio d’acqua, con la quale si potrebbe inondare la valle e respingere i nemici dalla collina, è divenuta «sacra». Come una patria perduta e ritrovata. E davanti allo scrittore si apre, caldo, fragrante e accogliente come una locanda d’altri tempi, lo spazio del sogno, la «prigione felice» del gioco infantile e fantastico”.
Nella sua esplosività, allo stesso tempo ingenua e geniale, la trama de Il Napoleone di Notting Hill è quasi superflua per l’economia complessiva del romanzo (che vive e riluce nella scintilla creativa che l’ha fatto nascere), ma vale comunque la pena di essere raccontata, almeno per sommi capi: a Londra, in un futuro non precisato (che per noi lettori d’oggi è il passato), Auberon Quin, un impiegato sguaiato e fracassone ma tutto sommato innocuo, viene nominato, per sorteggio, re d’Inghilterra. Una volta sul trono, il nuovo sovrano rivoluziona la città trasformando ogni quartiere. Opere, costruzioni, manti stradali si moltiplicano da un capo all’altro della capitale, finché qualcuno, un ragazzo di nome Adam Wayne, non si oppone all’apertura di una nuova, trafficata arteria nel suo quartiere, Notting Hill. Tra i due, inevitabile, scoppia la guerra: sarà solo confrontandosi che Quin e Wayne, re e suddito, scopriranno di non essere avversari ma facce di una stessa medaglia. Lasciatevi conquistare da questo meraviglioso romanzo, ve ne innamorerete e finirete per far vostre le parole che l’autore regalò a questa sua mirabile avventura: “Questa leggenda di un’ora d’epopea io da bambino la sognai, e la sogno ancora, sotto la grande torre grigia colma d’acqua che raggiunge le stelle, lassù a Campden Hill».
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
La razza umana, alla quale appartengono tanti miei lettori, si è dedicata fin dall’inizio ai giochi infantili, e probabilmente continuerà così fino alla fine: una vera seccatura, per i pochi che diventano adulti. Uno dei giochi che questa razza predilige si chiama «Ignora il domani», e viene altresì denominato (dai sempliciotti dello Shropshire, non ho dubbi in proposito) «Crepi l’Astrologo». I giocatori ascoltano, attenti e compunti, tutto ciò che gli uomini dotati di cervello hanno da dire su ciò che accadrà alla generazione successiva. I giocatori attendono che le persone ragionevoli passino a miglior vita, danno loro onorata sepoltura, dopo di che se ne vanno a fare qualcos’altro. Tutto qui. Nondimeno, per una razza di gusti semplici, questo è un vero spasso.
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