Recensione di “Racconti” di Friedrich Dürrenmatt
Hanno l’atmosfera inquietante degli incubi e i contorni bui e inafferrabili di una realtà decisamente troppo folle, o terribile, o grottesca, o assurda per essere vera i Racconti di Friedrich Dürrenmatt pubblicati da Feltrinelli; storie scritte nell’arco di quarant’anni (dal 1942 al 1985) che, pur toccando i generi più diversi, hanno il loro denominatore comune nella scelta degli argomenti trattati, nell’antropologica “curiosità” dell’autore, nella sua filosofica analisi del male, nel confronto aperto, spigoloso, tra la parola scritta e il mondo, cui la letteratura si rivolge come a suo privilegiato oggetto d’analisi e che è nello stesso tempo chiamata a interpretare e comprendere.
Al di là delle ovvie differenze di stile, quel che davvero colpisce in questo libro è il progressivo mutare del respiro narrativo degli intrecci; mentre all’inizio emerge con forza il bisogno di dar forma, razionalità a una storia, di inquadrarla e in tal modo evidenziarne il senso (e dunque il fine ultimo), in lavori più maturi e strutturati quest’ansia cede il passo alla pura suggestione della parola, alla sua capacità di creare situazioni, personaggi e da lì procedere alla costruzione di scenari più ampi, più gravidi di implicazioni.
È il caso delle sue opere di maggior successo, come per esempio La morte della Pizia, La panne e Il tunnel, incluse nel volume; qui lo scrittore svizzero, che in altri racconti più acerbi aveva optato per una sorta di immediato parallelismo tra densità e drammaticità della prosa e importanza del tema trattato (lo scarto tra l’impalpabile, metafisico concetto di giustizia e l’imperfezione colpevole della sua applicazione; la tragica impossibilità di distinguere il torturatore dal torturato e il prigioniero dal suo custode; la verità che si fa arbitrio, legge del più forte e tutto corrompe), stempera la cupezza dei toni nell’ironia, dà respiro alla storia, offre, in un sottile gioco di scarti e rimandi, scampoli di speranza (e illusioni di salvezza) ai suoi protagonisti e infine spalanca dinanzi a loro il baratro del destino, della condanna già stabilità. È un universo chiuso e abbandonato dall’innocenza quello dei Racconti, un assaggio d’inferno dove incessantemente transitano schiere di dannati; la vita, o l’illusione di possederla, è il loro unico tesoro, e l’affanno con cui cercano di proteggerla, di preservarla, dà l’esatta misura della loro misera condizione.
Che si consumi all’interno del comitato centrale di un onnipotente partito politico (come nello splendido La caduta, con i vari membri della catena di comando spogliati della loro individualità e identificati semplicemente con una lettera dell’alfabeto: “N comparve per primo nella sala delle sedute. Da quando era stato accolto nel massimo consesso, si sentiva al sicuro unicamente in quell’ambiente, pur essendo solo ministro delle poste e benché i francobolli per la conferenza della pace fossero piaciuti ad A, come aveva appreso da ambienti vicini a D e con maggior precisione da E”) o nella calda cornice di una cena (è quel che accade nell’indimenticabile La panne, quando il personaggio principale, il commesso viaggiatore Alfredo Traps, piantato in asso dalla sua automobile, si ritrova a tavola con un innocuo gruppo di anziani e accetta di partecipare al loro gioco: “Il nostro gioco è forse un po’ singolare […]. Consiste nel fatto che noi, la sera, esercitiamo per gioco le nostre vecchie professioni […] io in passato sono stato giudice, il signor Zorn pubblico ministero e il signor Kummer avvocato, e così fingiamo di comporre un tribunale”), qualcosa di simile alla caricatura del giudizio divino piomba sugli uomini, a punir le loro colpe, a illuminar vergogne, a dar voce all’indicibile. Ma non c’è ordine in quel che accade, né una norma pura cui questa giustizia cieca, comminata per caso (e che per tale ragione, proprio come raccontato in La panne, finisce per falcidiare gli innocenti), possa rapportarsi e ricevere giustificazione. Così a trionfare è soltanto il caos, in un mondo “che diventa un immenso punto interrogativo” (La salsiccia).
Senza dubbio alcuno, i numerosi capolavori di Friedrich Dürrenmatt (a partire da La promessa, recensito qui e che la presente raccolta non contiene) hanno la precedenza su questo libro, specie per coloro che non ancora non conoscono questo magnifico scrittore. I Racconti, tuttavia, hanno un loro valore, se non altro come ulteriore testimonianza della grandezza di uno scrittore giustamente considerato tra i più significativi del Novecento. Ecco perché vi invito a leggerli.
Eccovi il primo, brevissimo racconto del libro, intitolato Natale. La traduzione del volume è di Umberto Gandini. Buona lettura.
Era Natale. Attraversavo la vasta pianura. La neve era come vetro. Faceva freddo. L’aria era morta. Non un movimento, non un suono. L’orizzonte era circolare. Nero il cielo. Morte le stelle. Sepolta ieri la luna. Non sorto il sole. Gridai. Non mi udii. Gridai ancora. Vidi un corpo disteso sulla neve. Era Gesù Bambino. Bianche e rigide le membra. L’aureola un giallo disco gelato. Presi il bambino in mano. Gli mossi su e giù le braccia. Gli sollevai le palpebre. Non aveva occhi. Io avevo fame. Mangiai l’aureola. Sapeva di pane stantio. Gli staccai la testa con un morso. Marzapane stantio. Proseguii.