Recensione di “Il falò delle vanità” di Tom Wolfe
È senz’altro azzardato annoverare Tom Wolfe tra i grandi nomi del romanzo americano. Le sue opere risultano datate, prive del respiro universale che caratterizza i capolavori, le analisi sociologiche superficiali (più occhiate distratte alla realtà che studi rigorosi, “matti e disperatissimi”), i temi scelti semplici, immediati, a prima vista quasi scontati. Eppure… eppure, tra coloro che praticano il mestiere della scrittura, Wolfe merita un posto d’onore. Il motivo? Più d’uno.
La divertita leggerezza delle sue pagine, in grado di avvincere, di non stancare mai; la capacità di orchestrare, intrecciandole magistralmente, le vicende (quasi sempre tragicomiche) dei numerosi protagonisti che animano i suoi libri, e più di tutto il rassicurante senso di giustizia distributiva che permea ogni storia. Non la scontata, meccanica (e moralista) assegnazione di fortune e disgrazie in premio alla virtù e a castigo dei vizi esibiti dai personaggi nel corso delle vicende narrate, ma una sorta di “vigile” casualità che soddisfa il nostro appetito di giustizia (spesso sommaria) senza minare la credibilità dell’insieme. Bravo Wolfe, dunque, bravo davvero. A chi non l’ha mai avvicinato, suggerisco di cominciare con quello che è il suo romanzo più famoso, Il falò delle vanità (evitate, vi prego, il film che ne ha tratto Brian De Palma nel 1990), un tuffo nostalgico negli Anni Ottanta dell’alta finanza e delle speculazioni borsistiche (con una spolverata di questione razziale e, come suggerisce il titolo, generose dosi di grottesco amor di sé sparse a piene mani).
Nel raccontare la storia del giovane finanziare di successo Sherman McCoy, miliardario cui non manca proprio nulla, e come tutti quelli cui non manca nulla, eternamente insoddisfatto, Wolfe introduce il suo protagonista in una sorta di astrusa galleria degli specchi nella quale tutti coloro che hanno a che fare con quest’uomo allo stesso tempo tanto fortunato e ferocemente bersagliato dalla vita (che un bel giorno decide di fargli scontare tutti i privilegi accumulati) si rivelano, per quanto in misura di volta in volta differente, suoi ritratti, o per meglio dire sue caricature. Gli eccessi di Sherman, insomma, riverberano, trovano eco nelle persone, (ciascuna ritratta in modo da essere principalmente personaggio) che Sherman incontra, o con le quali si scontra, combatte, e tutto questo, naturalmente, contribuisce a dare vita a situazioni dove è l’assurdo a essere la regola, dove la realtà, anche la più comune, è ciò cui si fa davvero fatica a credere. Si ride, dunque, come già accennato, scorrendo le pagine di Wolfe, ma è un riso, quello che lo scrittore americano sa suscitare nei lettori, che una volta esaurito non svanisce, non si perde, trasformandosi in una sorta di pungolo, in un bisogno, che si fa sempre più pressante, di fare chiarezza, di capire dove sia, e soprattutto se ci sia, quella caratteristica, o quell’insieme di caratteristiche, che davvero separa da noi gli uomini e le donne di cui leggiamo le vicissitudini. Che per quanto lontane possano apparire dalle nostre ci sono misteriosamente così prossime.
Se, come penso, la lettura de Il falò delle vanità segnerà l’inizio di una grande amicizia con Wolfe, proseguite con Un uomo vero (la recensione, se vi interessa, la trovate qui) o meglio ancora con Io sono Charlotte Simmons (che recensirò presto), ritratto agrodolce del sistema universitario a stelle e strisce, una macchina perfetta pensata per produrre l’eccellenza con qualche lieve difetto di funzionamento.
Eccovi un piccolo assaggio della prosa di Wolfe. La traduzione, per Mondadori, è di Ranieri Carano. Buona lettura.
Quarantacinque secondi prima della scadenza dell’asta all’una del pomeriggio, George Connor, da un telefono nel centro della sala delle contrattazioni, impartì le disposizioni sulle offerte finali graduate a un funzionario della Pierce & Pierce, al telefono dentro il palazzo federale, che era il luogo fisico dell’asta. In media le offerte erano di 99,62643 dollari per il controvalore di cento dollari di obbligazioni. Pochi secondi dopo l’una, la Pierce & Pierce possedeva, come progettato, sei miliardi di obbligazioni ventennali. Il settore obbligazionario aveva quattro ore per creare un mercato favorevole. Vic Scaasi guidava la carica dal banco dei trader, rivendendo le obbligazioni soprattutto alle agenzie di brokeraggio… per telefono. Sherman e Rawlie guidavano i venditori, rivendendo le obbligazioni soprattutto a compagnie assicuratrici e banche fiduciarie… per telefono. Alle due il ruggito nella sala, alimentato più dalla paura che dalla grinta e dall’avidità di guadagno, era inumano. Urlavano tutti, sudavano e bestemmiavano e divoravano le loro ciambelle elettriche.