Recensione di “I nostri antenati” di Italo Calvino
Raccontare come in una favola, assecondando la scrittura agli slanci vertiginosi dell’immaginazione, ai salti mortali della fantasia. Raccontare come in una fiaba, come ne Le mille e una notte, affidando la storia a una voce narrante ed evocando attraverso essa un intero mondo, e passioni, dolori, amori, tragedie, speranze, illusioni. Raccontare come in un’allegoria, inventando per il proprio presente uno spazio nuovo e una coscienza con cui indagare, e provare a comprendere, se stesso. Così racconta Italo Calvino nei tre romanzi brevi Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente, scritti tra il 1952 e il 1959 e riuniti un anno più tardi in un volume unico intitolato I nostri antenati. Questi lavori, tra i più noti e amati della produzione del grande romanziere e intellettuale italiano, sono gioielli narrativi purissimi; la prosa di Calvino esplora il regno del fantastico con la medesima attenzione al dettaglio di uno scrittore realista e nello stesso tempo carica le sue pagine di sognanti suggestioni, sfuma la ferocia e la follia della guerra (quella che verso la fine del XVII secolo ha opposto le milizie cristiane a quelle turche e che fa da sfondo alla storia de Il visconte dimezzato) nell’equilibrio raffinatissimo di descrizioni intense, puntuali, forti, persino disturbanti, eppure sempre miracolosamente distanti dalla materialità volgare e dalla ruvida immediatezza delle cose, quasi non appartenessero davvero a ciò di cui parlano. Affronta (ancora una volta ne Il visconte dimezzato) temi appassionanti e controversi come il rapporto tra bene e male nell’uomo – il protagonista, Medardo di Terralba, diviso a metà da una palla di cannone nemica, sopravvive scisso (fisicamente e soprattutto moralmente), con ognuna delle due parti riempite per intero di bontà e malvagità – invitando il lettore a riflessioni ardue sulla natura del giusto e dell’ingiusto, sulla condizione dell’uomo contemporaneo, che pare aver drammaticamente smarrito la capacità di appartenere a sé, senza sacrificare neppure per un momento l’eleganza superba dell’espressione né compromettere la bellezza dell’insieme e il fascino ipnotico dello stile, essenziale eppure ricchissimo.
Atmosfere ancor più poetiche, che giungono a toccare vette di commovente lirismo, caratterizzano Il barone rampante, senza dubbio il più convincente e riuscito lavoro della trilogia. Folgorante fin dal principio – “Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi” – la novella, pur muovendosi su un registro grottesco (il giovane Cosimo, in un atto di ribellione all’autorità dei genitori, si rifugia su un albero che troneggia nel giardino di casa, dichiara che non lo abbandonerà più per il resto dei suoi giorni e, a dispetto delle numerosissime difficoltà incontrate, riesce a mantenere la parola data), disegna un quadro sociale e umano di impressionante acutezza, che non ha nulla di assurdo.Pur confinato su un albero, infatti, Cosimo mantiene i contatti con il mondo, anzi, l’acquisita libertà gli permette finalmente di allargare i propri orizzonti; la sua condizione, così singolare, attira sul giovane la curiosità di molti, trasformandolo in un punto di riferimento per gli ambienti culturali dell’epoca, ma con il trascorrere degli anni, la fedeltà a se stesso dimostrata da Cosimo (simbolo di coerenza e di ferma onestà intellettuale, principi che Calvino difende e rivendica, ma che il suo mondo, come quello di Cosimo, supino al compromesso, è a malapena disposto a tollerare) finisce per condannarlo al disprezzo e all’isolamento. E malgrado, ormai vecchio e malato, trovi assistenza negli uomini e nelle donne del suo paese, Cosimo sceglie anche in questo caso di non arrendersi alle regole sociali universalmente accettate (o meglio, al meccanismo violento e coercitivo su cui si fondano); prima rifiuta di scendere dall’albero per farsi curare, poi sorprende tutti aggrappandosi alla fune dell’ancora di una mongolfiera di passaggio per sparire per sempre: “Così scomparve Cosimo. E non ci diede neppure la soddisfazione di vederlo tornare sulla terra da morto. Nella tomba di famiglia c’è una stele che lo ricorda con scritto: Cosimo Piovasco di Rondò – Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo». Ne Il cavaliere inesistente Calvino riduce l’orizzonte del proprio interesse e dall’analisi del corpo sociale passa a quella individuale. Protagonista della vicenda narrata è Agilulfo, cavaliere senza macchia ma invisibile a causa della purezza d’animo. Agilulfo, infatti, incarnerebbe alla perfezione l’ideale cavalleresco se solo fosse possibile incarnare un ideale; immaterialità e invisibilità (Agilulfo è la sua armatura e niente altro), misura della conoscenza più semplice, quella dei sensi, testimoniano il non essere del cavaliere. La coscienza di Agilulfo, vivissima e per questo in netto contrasto con la sua corporeità nulla, è insieme il suo carattere e il principale ostacolo al suo essere; al pari di altri cavalieri egli vive numerose avventure ma limitandosi a interpretarle, a recitarle, e non perché non creda in quel che fa ma per la ragione opposta, perché le sue convinzioni, incorrotte, non possono incontrare il reale. Il passaggio di Agilulfo dalla coscienza a quel che esiste fuori di sé, allo stesso modo del “compromesso con la terra” ostinatamente rifiutato dal barone Cosimo, è subordinato all’imperfezione, al peccato, al prezzo che si paga per “divenire uomo”.
Favola, fiaba, raccolta di storie fantastiche meravigliosamente vere, I nostri antenati è un capolavoro letterario. Un libro splendido, un viaggio iniziatico, un Grand Tour dello spirito. È un’opera che non invecchia, che racconta con dolcezza, passione, entusiasmo inesauribile, che non ci si stanca mai di leggere e sa offrire infiniti momenti di riflessione. È, con ogni probabilità, il dono più prezioso dello scrittore Calvino.
Eccovi l’inizio de Il visconte dimezzato. Buona lettura.
C’era una guerra contro i turchi. Il visconte Medardo di Terralba, mio zio, cavalcava per la pianura di Boemia diretto all’accampamento dei cristiani. Lo seguiva uno scudiero di nome Curzio.