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Un inavvertito abisso di solitudine

Recensione di “Anime alla deriva” di Richard Mason

Richard Mason, Anime alla deriva, Einaudi

Come può la fredda confessione di un omicidio esprimere un amore così forte da sfiorare l’assoluto? Come è possibile che una vita intera trascorsa al fianco di una persona, con tutto quello che ha significato, in un solo istante svanisca riducendosi a finzione, a menzogna, a patetico inganno? Quale ragione può esserci perché qualcosa di molto simile a un sogno d’improvviso si muti in incubo, in tragedia, in disfatta?


A queste domande, a questi ossessivi perché e ai decenni colmi di entusiasmo e dolore, passioni e inganni che nascondono, cerca di dare risposta, in un lungo, intensissimo monologo che è a un tempo prezioso scrigno di memorie individuali e irrimediabile naufragio esistenziale collettivo, James Farrell, tra i protagonisti di Anime alla deriva, scintillante opera prima dello scrittore inglese di origini sudafricane Richard Mason (di lui in questo blog ho già recensito Noi; se vi interessa potete leggerla qui). Nello splendore austero di Seton Castle, dimora di famiglia in Cornovaglia, circondato dalle ombre del giorno ormai declinante, di punto in bianco sfinito dai suoi settant’anni (per celebrare i quali la moglie assassinata stava organizzando una festa a sorpresa), quest’uomo trova il coraggio di riaprire antiche ferite, di tornare al tempo d’illusoria felicità della sua giovinezza non solo per provare a dare un senso al gesto terribile che ha compiuto, ma per comprendere, finalmente, per quale tortuoso cammino è giunto fin lì:

“Se mi conosceste, non direste che sono il tipo dell’assassino. Non mi considero certo un uomo violento, e non penso che l’aver ucciso Sarah modificherà questa opinione. Dopo settant’anni su questa terra, conosco i miei difetti, e la violenza, perlomeno in senso fisico, non è tra questi. Ho ucciso mia moglie perché lo esigeva la giustizia; e uccidendola ho ristabilito almeno una specie di giustizia. O no? […] La mia ossessione per il peccato e la punizione, messa a tacere in modo molto imperfetto tanto tempo fa, torna a farsi sentire. Mi scopro a chiedermi quale diritto avessi di giudicare Sarah, e quanto più duramente sarò giudicato per aver giudicato lei; per averla giudicata e punita in un modo in cui io non sono mai stato giudicato e punito”.

Del tutto privo di rimorsi per il delitto compiuto, Farrell non può impedirsi di lasciar tracimare i sentimenti e le emozioni che lo dilaniano nel momento stesso in cui comincia a spiegare ricordando. Così quel che egli dipinge con i colori caldi della più sincera partecipazione emotiva è un ragazzo di poco più di vent’anni deciso a diventare violinista, la cui tranquilla vita cambia, quasi senza che lui, almeno inizialmente, riesca a rendersene conto, in seguito al fortuito incontro con una giovane, Ella Harcourt, nobile, ricchissima, fidanzata e, forse, infelice. Ed è nello spiraglio lasciato aperto da questa supposta infelicità, da un’intimità offerta in dono e mancata per un soffio proprio in quel primo, breve momento di conoscenza che Farrell si infila con decisione, sperimentando dapprima un’eccitante curiosità, poi una sorprendente affinità elettività con questa fanciulla misteriosa, le cui parole spesso enigmatiche profumano di libertà, di ribellione agli obblighi e alle convenzioni, e infine la travolgente onda di marea dell’innamoramento. Ma è proprio con l’amore, per quanto corrisposto, che sorgono gli ostacoli e si presentano difficoltà e problemi; è nel momento esatto in cui non dovrebbe esserci spazio che per la felicità e la soddisfazione del desiderio che la lontana quinta teatrale del dramma comincia a intravedersi sullo sfondo; impalpabile al principio, come la sottile striscia di terra che si indovina dal mare, poi sempre più concreta e minacciosa a mano a mano che Ella svela a James la situazione nella quale si trova.

Il rapporto oscuramente contorto e morboso che nello stesso tempo la unisce e la divide dalla cugina Sarah, la loro somiglianza fisica impressionante, cui fa da contraltare una diversità caratteriale assoluta, la velenosa gelosia che quest’ultima nutre verso di lei, colpevole di averle portato via (per uno scherzo crudele? Una prova di forza? Una ripicca?) l’uomo che amava e ancor più di volerlo sacrificare al nuovo arrivato Farrell, nonché responsabile ai suoi occhi (senza esserlo davvero) di essere la sola ereditiera della meraviglia di Seton Castle e della fortuna di famiglia; l’ingombrante fidanzamento che incatena Ella e di cui non ci si può facilmente liberare, i ristretti margini di manovra che la severa etichetta dell’alta società impone; le stesse amicizie di Farrell, della cui intensità egli per primo stenta a rendersi conto….

In un tempestoso crescendo emotivo che Mason, per bocca di Farrell, narra con maestria ed equilibrio, mescolando alla raffinata ricchezza del romanzo ottocentesco la tensione del giallo psicologico, avvicinando il lettore alla catastrofe un passo alla volta, l’uxoricidio che apre e chiude la vicenda si chiarisce (senza mai giustificarsi del tutto, perché prima di arrivare a quel gesto estremo ci sarebbe stato modo di riparare gli errori commessi, ma Anime alla deriva non è solo una storia di delitto e castigo, è anche un’acuta e amara riflessione sulle viltà di tutti i giorni, così trasparenti e fragili da risultare invisibili eppure così terribilmente pesanti e spaventose una volte messe sul piatto di un inevitabile bilancio esistenziale) spalancando dinanzi al mancato eroe dell’intreccio, quell’abisso di disperata solitudine che, inavvertito, gli è in realtà sempre stato compagno.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Einaudi, è di Stefania Bertola. Buona lettura.

Mia moglie si è sparata ieri pomeriggio. O almeno questo è quanto ritiene la polizia, e io interpreto la parte del vedovo affranto con entusiasmo e con successo.

2 commenti su “Un inavvertito abisso di solitudine”

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