Recensione di “La famiglia Moskat” di Isaac B. Singer
Città prigione dove una dinastia nasce e si consuma, orizzonte angusto e chiuso al cui interno ricchezze crescono e si dissolvono, Varsavia, silenziosa e fredda, distante da coloro che la affollano, che cercano di viverla, che spendono i loro giorni affannati nella penombra delle case, nell’esibita povertà delle strade, nella bellezza pallida e sfiorita dei giardini, è la principale protagonista de La famiglia Moskat (in Italia pubblicato da Tea nella traduzione di Bruno Fonzi), riconosciuto capolavoro di Isaac Bashevis Singer.
È qui, in questo intrico di vie e piazze, in questo labirinto che non sembra avere vie d’uscita e che stringe a sé, in un abbraccio che si fa di momento in momento sempre più soffocante, i suoi cittadini, e fra essi le numerosissime famiglie ebraiche e il loro tesoro di tradizioni, cultura, credo religioso, che Singer narra decenni di storia (dal principio del Novecento fino al tragico avvento della follia omicida nazista) filtrandole attraverso i complessi intrecci privati di un patriarca e dei suoi discendenti. Ma il cupo grembo di Varsavia, nel quale uomini e donne si muovono come vermi ciechi e dove ogni cosa ha sentore di morte, non è che il riflesso dell’oscurità incombente che sta per travolgere l’Europa; Singer disegna i suoi personaggi con verità, la sua prosa, ricchissima, vibrante, ha la nobile responsabilità del ricordo, della memoria, riporta all’esistenza un mondo antico, radicato, che la ferocia hitleriana è riuscita in brevissimo tempo a spazzare via, e in questo assoluto e purissimo miracolo letterario egli lascia che a splendere, a brillare siano le passioni umane, le migliori (l’amore, la pietà) come le peggiori (l’avidità, l’egoismo, la viltà); in una parola, Singer si sforza di sottolineare, di dare evidenza a tutto ciò che rende gli esseri umani ciò che sono, a quel che li caratterizza, operando dunque in senso esattamente opposto rispetto a quanto fatto dalla perfetta macchina di sterminio dell’esercito tedesco, che gli ebrei ha annientato proprio togliendo loro per prima cosa il diritto a dirsi persone, a essere considerate e trattate al pari di tutti gli altri.
Così la narrazione di Singer, il suo addentrarsi nei mille segreti di una famiglia, il suo navigare tra gelosie e invidie, passioni e tradimenti, speranze e disillusioni, si fa viaggio spirituale fin nelle più profonde radici della vita, diviene ricerca di un significato, di un senso, che forse abita nell’universale bisogno d’amare ed essere amati, forse nell’eterno ma imperscrutabile (e troppo spesso incomprensibile) amore di Dio, Signore dell’Universo, per le sue impotenti creature. “Ho dovuto promettere alla mamma e al papà che acconsentirò a fidanzarmi con Fishel tra due settimane. Naturalmente li ho ingannati, povere anime. Lo zio Abram sta recitando una strana parte, cerca di dissuadermi dalla mia «avventura» ma nello stesso tempo ci aiuta. Sta cercando di far dare un sussidio a Asa Heshel; v’è una specie di fondo della Comunità ebraica, per gli studenti poveri. A me sembra sia come chiedere la carità. Lo zio si sta preparando a partire per l’estero. Come sarebbe bello se potessimo trovarci tutti e tre insieme nelle Alpi. La mamma è molto giù, e in faccia è gialla. Mi guarda come se il suo istinto le dicesse che mi sto preparando a partire. Gina ha ottenuto il divorzio dal suo fanatico marito. Immagino che presto sposerà Hertz Yanovar. Anche loro, probabilmente, andranno in Svizzera, Saremo in molti, là […]. Varsavia, mia cara città, sono tanto triste! Ho nostalgia di te ancora prima di lasciarti. Guardo i tuoi tetti spioventi, le ciminiere delle fabbriche, i tuoi cieli pieni di nuvole, e sento quanto sei radicata nel mio cuore. So che sarà bello vivere in un paese straniero, ma quando verrà la mia ora di morire, vorrò che mi portino nel cimitero di Gensha, vicino alla mia cara nonna”.
Nella radicale diversità di caratteri incompatibili, nelle loro scelte, negli errori commessi, nell’incedere tenace e sfinito di chi, pur privo di ogni possibilità di salvezza non intende arrendersi alla fine, l’affresco di Isaac Singer, splendido e tragico, si fa indimenticabile; a tu per tu con una realtà talmente pazzesca e sanguinosa da somigliare al suo opposto, al più spaventoso degli incubi, le coscienze dei singoli divengono coscienza di popolo, e la sua indicibile sofferenza eredità e colpa di tutte le generazioni a venire.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
Cinque anni dopo la morte della seconda moglie, Reb Meshulam Moskat si sposò per la terza volta.