Recensione di “La statua di sale” di Gore Vidal
“Si è detto molto – il santo stesso ne ha parlato – di come Agostino abbia rubato e mangiato delle pere da un frutteto milanese. Si presume che non si arrischiò più a trafficare (né tantomeno a mangiare) merce rubata e, una volta che si lasciò alle spalle questo crimine giovanile […] filò dritto verso la santità. Il fatto è che tutti noi abbiamo rubato delle pere; il mistero è perché così pochi di noi abbiano meritato aureole. Ho il sospetto che in certe vite conosciute ci sia a volte un momento improvviso in cui si deve scegliere. Mi sposo o ardo? Rubo o do agli altri? Chiudo la porta su una vita agognata per aprirne un’altra, deliberatamente, su dolore e sofferenza perché… Il ‘perché’ è la vera storia, che di rado viene raccontata […]. A diciannove anni, appena congedato dall’esercito, scrissi un romanzo, Williwaw (1946): fu ammirato, almeno in senso cronologico, come il primo dei romanzi di guerra. L’anno seguente scrissi il meno ammirato In a Yellow Wood (1947). Allo stesso tempo, mio nonno stava spianando il cammino alla mia carriera politica nel New Mexico […]. Sì, che ci crediate o no, nella più grande democrazia che il mondo abbia conosciuto […] le elezioni possono essere aggiustate senza clamore, come vi ha amabilmente spiegato Joe Kennedy […]. Stavo lavorando a La statua di sale. Se l’avessi pubblicato, avrei svoltato a destra e sarei finito, maledetto, a Tebe. Abbandonandolo, avrei girato a sinistra trovandomi nella santa Delfi. L’onore richiedeva che prendessi la strada per Tebe […]. Sapevo che la mia descrizione di una storia d’amore tra due ragazzi americani ‘normali’, come quelli con i quali avevo trascorso tre anni nell’esercito in tempo di guerra, avrebbe messo in discussione nel mio paese natio – che è sempre stato più simile alla Beozia, temo, che non ad Atene o alla spettrale Tebe – tutte le superstizioni sul sesso. Fino a quel momento, i romanzi americani sulle ‘inversioni sessuali avevano trattato di travestiti o di ragazzi solitari e cerebrali che avevano contratto matrimoni infelici e si struggevano per i marine. Io ruppi quello schema. I miei due amanti erano atleti e così attratti dal genere maschile che, nel caso di uno, Jim Willard, quello femminile era semplicemente irrilevante. La sua passione lo spingeva a riunirsi con la sua metà, Bob Ford: sfortunatamente per Jim, però, Bob aveva altri progetti sessuali, che comprendevano le donne e il matrimonio. Diedi il manoscritto ai miei editori di New York […]. Lo detestarono. Un vecchio editor disse: «Non ti perdoneranno mai per questo libro. Tra vent’anni ti attaccheranno ancora»”.
Con queste parole, che aprono il lavoro più noto e discusso dello scrittore americano, Gore Vidal stesso intende non tanto illustrare la genesi del romanzo quanto provare a spiegare il bisogno, l’urgenza che stanno a fondamento delle sue indimenticabili pagine: riflettere, dire il vero, perché “il romanziere deve sempre scrivere la verità, per come la intende”. E la verità cui Vidal ci mette di fronte è l’omosessualità come fatto compiuto, come realtà come un “esserci” che germoglia ovunque, nello stesso modo in cui nasce e cresce il suo opposto, da tutti o quasi considerato la normalità, la sola condizione accettabile. Così, il protagonista del romanzo, Jim Willard, figlio come tanti di una modesta famiglia del sud degli Stati Uniti uguale a infinite altre, è talmente autentico, talmente lontano da traumi, ferite o dolori che possano, almeno in qualche misura, spiegare la ragione della sua devianza, da ingannare tutti (“avevo costruito il personaggio dell’atleta Jim Willard in maniera così convincente che ancora oggi i vecchi pederasti sono convinti che io sia stato una marchetta dotata di un ottimo rovescio a tennis”); mentre tutto ciò che questo giovane bello e tormentato riesce a fare nel corso dei suoi migliori è rincorrere uno sfuggente se stesso, provare a comprendersi attraverso la sua passione per il migliore amico, quel Bob con il quale, all’indomani del diploma, aveva vissuto un meraviglioso fine settimana battezzato con un rapporto sessuale che lui (ma lui soltanto) non riusciva, né voleva, dimenticare. .
Nella continua (e sterile) ricerca di Bob, partito per il mare subito dopo quell’incontro meraviglioso e terribile per Jim, il ragazzo vive un’illusione che ha tanto i contorni dell’incubo quanto la dolce consistenza del sogno: diventa l’amante di un divo del cinema, poi di uno scrittore (legato a una donna della quale Jim si innamora senza tuttavia riuscire a far sì che questo suo sentimento sfoci in un rapporto sessuale) ma tutte queste esperienze per lui non sono che parentesi, modi per riempire i vuoti di un’attesa, l’unica che conti, la sola che abbia significato, quella del ritorno della persona che ha amato, ama e amerà finché avrà vita. Non sorprende perciò che tutto il romanzo si svolga un nebbioso presente che ha il carattere di una neutra atemporalità (con la tragedia della guerra a far capolino sullo sfondo, nei titoli di giornali scorsi con un’alzata di spalle a bordo di una piscina) e che ogni cosa accada quasi esclusivamente per un freddo meccanismo di causa-effetto, sottolineato da una prosa cruda, essenziale, che non lascia spazio ad alcunché di superfluo e attenta, implacabile, inesorabile, descrive, registra, annota, e così facendo prepara l’esplodere del dramma finale. Perché nel momento in cui il tanto agognato ricongiungimento tra i due amici avviene, tocca a Jim assumersi la responsabilità che per anni, galleggiando sulla superficie di un’esistenza che non gli è mai davvero appartenuta, ha rimandato; quella di accettare una volta per tutte la sua irrimediabile solitudine.
Romanzo di straordinario valore umano e letterario, La statua di sale è una coraggiosa, radicale esplorazione dei sentimenti, un’opera di assoluta onestà intellettuale impossibile da dimenticare.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Fazi, è di Alessandra Osti. Buona lettura.
Era uno strano momento. Nel bar non c’era realtà; non c’era più nulla di solido; tutte le cose si confondevano l’una nell’altra. Il tempo si era fermato.