Recensione di “Una casa per Mr. Biswas” di V. S. Naipaul
L’amaro frutto di un raggiro, la beffa, l’ultima, la più cocente, di una stagione lunga quanto un’intera vita e costellata di rovesci, di ingenuità pagate a carissimo prezzo, di pietà negate e sterili furori, di mute gelosie ed esibiti disprezzi, di patetiche lotte intestine e amori immaturi, di irraggiungibili felicità e quotidiane umiliazioni.
Eppure, malgrado tutto ciò, un simbolo, una dimostrazione, una rivendicazione colma d’orgoglio; la testimonianza concreta di una battaglia condotta con coraggio, in nome di una coerenza zoppicante, imprecisa, a tratti perfino comica ma mai abbandonata, mai rifiutata, mai abiurata, e di valori difesi come la più limpida espressione di sé, come l’irrinunciabile, ultimo bastione perduto il quale un uomo perde il diritto a considerarsi tale. Questo, un caotico tutto, una filosofia impazzita, un clownesco e disperato mondo alla rovescia che contiene ogni cosa e il suo contrario, una “terra che ha radici nel cielo” dove nulla è come dovrebbe essere e dove gli opposti senza sosta urtano l’uno contro l’altro senza annullarsi e senza che alcuna composizione di ordine superiore possa darsi, è la casa, lo spazio privato per eccellenza, il rifugio, il riparo, la tregua concessa dagli affanni di ogni giorno, per Mohun Biswas, povero figlio di immigrati indiani a Trinidad, nato sotto una cattiva stella e perseguitato da un’avversità davvero singolare che lo rende incapace di comprendere le lezioni che provengono dai propri numerosissimi errori, e dunque, in ultima analisi, di migliorarsi. Biswas (Mr. Biswas, come viene chiamato fin dalle primissime pagine del romanzo, a sottolineare l’assenza della sua fanciullezza, l’inesistenza di quegli anni cruciali nei quali, crescendo, si fa esperienza del mondo imparando a prenderne le misure, a difendersi da esso e a concedergli fiducia e credito le rare volte in cui le circostanze lo permettono) è l’indimenticabile protagonista del romanzo Una casa per Mr. Biswas dello scrittore trinidadiano (poi naturalizzato britannico) Vidiadhar Surajprasad Naipaul, scomparso di recente e insignito, nel 2001, del premio Nobel per la Letteratura.
Prima ancora di essere uno sconfitto, un vinto, Biswas è un uomo solo, condannato a vedersi riflesso in uno specchio dalla religiosità primitiva e profonda della sua gente, dalla distanza che lo separa dagli altri, che egli non riesce in alcun modo a colmare, nemmeno attraverso il matrimonio e l’ingresso in una numerosa famiglia, dall’estraneità che sente nei riguardi dei figli, dinanzi ai quali fallisce sia vestendo i severi panni dell’autoritarismo sia scegliendo la via opposta dell’ascolto e della compassione. Così, prigioniero in una dimensione nella quale non esiste posto per nessun altro, Biswas sceglie di nutrirsi di rancore, di rabbia, ed elegge a proprio nemico tutto ciò che gli è prossimo: la famiglia acquisita prima di tutto, a partire dalla moglie Shama, cui rimprovera di averlo imprigionato con l’inganno delle nozze e obbligato a vivere come ospite (condizione alla quale cercherà sempre di sfuggire) in una casa non sua, in spazi angusti viziati dalla condivisione forzata, poi le persone con cui ha a che fare per lavoro (che di nuovo sono i suoi familiari nuovi di zecca, e in particolar modo il burbero e minaccioso Seth, riconosciuto capo del clan Tulsi, di cui Biswas entra a far parte nel momento in cui sposa la giovanissima Shama), infine la prole, generata senza amore, per caso, per noia, per inflessibile decreto della natura.
Di Biswas e delle sue disavventure, della sua anima lacerata, del suo corpo goffo e stanco, della sua caparbia resistenza agli inciampi del caso, Naipaul racconta con accenti diversi; se da una parte gli infortuni di questo protagonista che non ha nulla del prim’attore e tutto della comparsa da ultima fila, strappano spesso divertiti sorrisi, dall’altra le numerose pagine dedicate all’introspezione psicologica, al bisogno di Biswas di emergere, alla sua dignità così a lungo inseguita i cui contorni sono quelli rassicuranti e cari di una casa, una vera casa tutta per sé, emozionano e addolorano, illuminando, nell’odissea di un singolo, le drammatiche condizioni generali di vita a Trinidad negli anni del secondo conflitto mondiale. Guardando agli uomini e alle cose con gli occhi disincantati e un po’ folli di Mr. Biswas, V.S. Naipaul narra i mali di una società intera, la sua scandalosa arretratezza, e nel simbolo di una casa, uno dei più cari, se non forse il più caro per gli uomini, egli individua una salvezza nella cui impossibilità (soltanto alla fine della sua vita Biswas otterrà l’agognata casa, che tuttavia non sarà quella dei sogni e che contribuirà a sprofondare lui e la sua famiglia in un groviglio di problemi quasi insolubili) riposa la peggiore delle ingiustizie.
Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Adelphi, è di Franca Cavagnoli. Buona lettura.
Dieci settimane prima di morire, il signor Mohun Biswas, giornalista di Sikkim Street, St. James, Port of Spain, fu licenziato.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.